Corriere della Sera, 22 ottobre 2021
Intervista a Monica Guerritore
F iglia naturale di Renato De Carmine?
«Ebbene sì, mi è capitato anche questo – racconta Monica Guerritore —. Quando debuttai in teatro nel Giardino dei ciliegi diretta da Giorgio Strehler nel ruolo di Anja, avevo solo 15 anni, una ragazzina. Ma molti anni dopo, nel 2013, quando il mio vero padre stava per morire, venni a sapere che sull’annuario del cinema di Morando Morandini dedicato alle attrici, il Morandini delle donne, c’era scritto che risultavo figlia naturale del grande attore. La falsa notizia era stata ripresa da una mia vecchia intervista in cui affermavo che consideravo Valentina Cortese e Renato, che nello spettacolo interpretava mio zio, un po’ come genitori acquisiti. Un’affermazione di semplice affetto nei loro confronti e che, invece, è diventata una verità assoluta e pubblicata. Una roba bruttissima».
E lei smentì subito il macroscopico errore.
«Mio padre stava morendo e, in quei giorni, non me la sono sentita di dirgli questa assurdità, lo avrebbe addolorato, però poi, quando è morto, ho iniziato una battaglia legale. La causa è ancora in corso e spero che, a breve, si concluda con una giusta sentenza... Una delle mie tante battaglie».
Cominciamo da quando marinò la scuola...
«Avevo 12 anni ma, avendo un fratello più grande, Marino, tendevo a imitarlo, ero piuttosto mascolina, esuberante. Il primo giorno della prima media, vedevo ragazzine della mia età tanto carine, bionde, molto ordinate, perfette... Non mi riconoscevo in loro e decisi di prendermi un giorno di libertà. Andai a piazza di Spagna dove avevo già visto i marocchini con i loro tappeti colorati stesi sulle scale ricoperti di collanine, braccialetti, orecchini... Passai la mattinata intera a comporre anche io braccialetti, collanine, orecchini, mi piaceva da impazzire, ma all’una e mezzo precisa tornai a casa, come fossi appena uscita da scuola. Trovai mia madre che parlava al telefono con un’amica e mi chiede: com’è andata a scuola? E io rispondo: benissimo! E lei: vai in camera, prepara la valigia perché abbiamo il treno prenotato. E io: per andare dove, mamma? E lei: in collegio. Insomma, aveva saputo che avevo fatto sega a scuola».
Come lo aveva scoperto?
«L’amica con cui stava parlando al telefono, qualche ora prima era passata proprio sulla scalinata di Trinità dei Monti. Mi aveva visto, senza dirmi niente, e io ovviamente non me ne ero accorta... però aveva avvertito mia madre che, essendo una donna pratica, capì l’antifona, e cioè che aveva a che fare con una ragazzina dotata di un caratterino... Siccome però doveva già combattere con l’altro maschio, prese la palla al balzo e mi spedì in collegio».
Un duro castigo...
«No! Una svolta nella mia vita, in collegio avevo tante compagne, mentre a casa soffrivo di solitudine: i miei genitori si erano separati quando ero piccolissima, mio fratello non giocava con me ed essendo maschio aveva un rapporto privilegiato con mio padre. Ero arrabbiata, triste, mi sentivo discriminata, ma crescendo tale condizione mi ha fortificato e, da adulta, ho recuperato con mio padre un profondo rapporto intellettuale».
E con sua madre?
«Una donna forte, intelligente, è stata la mia mentore. Purtroppo, però, invecchiando è stata colpita dall’Alzheimer. Me ne accorsi all’inizio della malattia per via di un suo strano atteggiamento in una circostanza molto difficile per me: la mia lotta al tumore al seno».
Un’altra delle sue battaglie: ne fece una campagna a favore della prevenzione.
«Certo, essendo un personaggio pubblico, ho sentito la responsabilità di condividere il mio problema e aiutare altre donne. Mi è parso naturale far capire che non bisogna avere paura, che non si deve rimanere sole, bensì affrontare e combattere. Arrivai a dire a Umberto Veronesi che ero pronta a tagliarmi un seno: mi sarei fatta fare un corsetto come un’amazzone... Ma il grande professore mi tranquillizzò dicendo: i seni non si tagliano più».
La stranezza di sua madre quale fu?
«Venne a trovarmi in ospedale dopo l’operazione, però la sua presenza era come ritardata, distante, quando invece mi era sempre stata tanto vicina. Lì per lì, pensai che il suo fosse un modo per darmi coraggio, come a dire: il tumore è stato preso in tempo, quindi non è grave e non devi preoccuparti. Purtroppo non era un atteggiamento, la verità è che non era più presente. E quando, conclamato l’Alzheimer, la portai un giorno a fare una passeggiata fuori dalla struttura clinica dove era ricoverata, accadde un altro episodio incredibile. Mentre camminavamo per strada, lei si appoggiava a me e vedevo riflessa la sua immagine curva sulle vetrine. Pensavo addolorata: com’è fragile, non è più la donna bellissima, col piglio energico di un tempo. Mia madre cambia improvvisamente tono di voce e mi chiede a bruciapelo: Monica a cosa stai pensando? In quel momento era tornata a essere lucida e mi aveva letto nel pensiero».
Cosa le ha risposto?
«Le ho detto “niente mamma”, le ho sorriso, l’ho abbracciata e mi son chiesta se si fosse rifugiata volutamente in quella follia e che esistesse ancora un modo per comunicare con lei. Poi... è morta quindici giorni prima di mio padre: si erano amati tantissimo e si erano separati perché lui aveva fatto il cretino... però il legame tra loro era rimasto intatto».
Ma dopo il collegio, i suoi genitori erano contenti del suo debutto in teatro?
«Neanche io ci pensavo lontanamente! Il mio debutto con Strehler fu del tutto casuale. Quel giorno mi trovavo a Milano per caso e avevo accompagnato una mia amica al provino col grande regista al Piccolo. Avevo assistito in platea alla prova, poi ero partita per andare a sciare in montagna e, ovviamente, non avevo lasciato in teatro miei riferimenti, numero di telefono o altro. Qualche giorno dopo, quando ero già tornata a Roma, dei miei amici milanesi mi dicono che sul Corriere della Sera era uscito un annuncio proprio di Strehler: cercava quella ragazzina che aveva visto seduta in sala e che somigliava a Ingrid Bergman. Allora chiamo la segreteria del Piccolo, dicendo: forse il regista sta cercando me. Ed era proprio così. Chiesi a mia madre se potevo andare e lei rispose: vai. Credo sia stato un angelo a mettermi nelle mani del Maestro».
Una lunga carriera, fra teatro, cinema e televisione...
«E tanti personaggi che ho avuto la fortuna di conoscere. A cominciare da Vittorio De Sica, con cui debuttai nel 1973, insieme a suo figlio Christian, sul grande schermo nel film Una breve vacanza. Ero piccola e non riuscivo a recitare la scena che mi chiedeva di fare, cioè di piangere. Allora il regista comincia a strillare, a trattarmi male, io ci resto male e partono le mie lacrime... che però erano sincere e lui gira la scena: è stato il mio primo ciak da attrice cinematografica. Tre anni più tardi, sul set del film Signore e signori, buonanotte, di cui Marcello Mastroianni era protagonista, assistetti a una scenetta divertente. Durante una pausa, venne a trovarlo sua madre: era molto preoccupata per il futuro del figlio, perché lavorava un mese sì e sei mesi no. Il grande sceneggiatore Ettore Scola cercava di tranquillizzarla, sottolineando che Marcello era un attore già famoso, quindi il lavoro non gli sarebbe mai mancato. La mamma, però, non si tranquillizzò e se ne andò sconsolata».
Con Gabriele Lavia, padre delle sue due figlie Maria e Lucia, ha navigato nell’immenso repertorio classico, ma anche in film come Scandalosa Gilda, Sensi e La lupa. Ha mai provato imbarazzo nelle scene osé?
«Assolutamente no. Prima di tutto perché non è che si vedesse molto del mio corpo, se non il seno nudo, ma soprattutto perché, dopo tanti personaggi classici, è stato un atto di libertà come attrice. Aggiungo che, se fossi nata uomo, avrei interpretato volentieri il ruolo di Marlon Brando nell’Ultimo tango a Parigi. Non ho mai accettato l’idea che esista il problema sesso nei personaggi femminili, come non esiste in quelli maschili. La pornografia è tutta un’altra faccenda, e non mi riguarda... io voglio capire cosa si nasconde nel corpo delle donne: c’è anche il sesso».
E a proposito del corpo, non ha mai ceduto alla chirurgia estetica.
«Ognuno è libero di fare quel che vuole col proprio corpo che cambia, ma è una battaglia persa. Devi amare la tua pelle, i tuoi occhi, le rughe, le occhiaie. Sono la sostanza della femminilità, la mutevolezza delle tue cellule e gli interventi estetici invece ti fissano in un lineamento, mentre io amo essere fuori fuoco. Capisco che esistono delle fragilità, delle debolezze interiori che la chirurgia può aiutare a combattere indossando una maschera, dietro la quale, però, la tua forza viene compressa».
Ora torna a indossare una maschera teatrale, portando in scena L’anima buona di Sezuan di Brecht, al Teatro Manzoni di Milano dal 4 novembre, ispirata all’edizione che ne fece Strehler nel 1981, rendendogli omaggio.
«L’ho potuto fare perché a suo tempo avevo assistito a tutte le prove e alla messinscena dello spettacolo, di cui era protagonista Andrea Jonasson. Il Maestro non si può raccontare solo attraverso le mostre con le sue foto, bisogna vederne le opere e questa fu un capolavoro».