la Repubblica, 22 ottobre 2021
A casa di Simoncelli
Marco è sempre con noi, non se ne è mai andato: perché se stasera a tavola continuiamo a ridere e scherzare ci sarà un motivo, o no?». Sì, il Sic è ancora qui. Nella casa di Coriano. Lo capisci dallo sguardo sereno di mamma Rossella, che ha preparato uno spettacolare pesce al forno: «Che peccato, non ho fatto in tempo a fare le piadine – con l’olio, non con lo strutto – che gli piacevano tanto». E lo capisci dai baffoni di babbo Paolo, mentre s’increspano per nascondere un altro sorriso: serve un bicchiere di lambrusco a Carlo Pernat, il manager genovese che era una specie di zio («Fratello maggiore, prego») del pilota. E che dopo la tragedia di Sepang, il 23 ottobre del 2011, dormì per un mese nella sua camera al primo piano, dove adesso hanno sistemato l’urna con le ceneri. Marco Simoncelli, il Sic. Domani sono 10 anni. Whiskey, il vecchio pastore tedesco, dal giardino bussa con le zampe. Questa è una cena speciale.
«Con Marco sono stati 24 anni meravigliosi. Di pura gioia. Non rimpiango nulla. Siamo stati genitori molto fortunati»: Rossella si emoziona, le si illumina lo sguardo. Paolo fa il burbero, aggrotta la fronte: «Io un rimpianto invece ce l’ho: quel giorno faceva un gran caldo, ho visto che in griglia si era messo in testa l’asciugamano bagnato col numero 58. Ma al contrario. Mi ha sfiorato un presentimento, volevo avvertirlo. Però mancavano solo 2 minuti al via. Forse non sarebbe cambiato nulla. Forse». Pernat ricorda l’ultima gita tutti insieme, tra un gran premio e l’altro, negli Stati Uniti: «Un viaggio fantastico, che risate.
Belìn, ad un certo punto non trovavo più le mie sigarette. Me le aveva rubate Marco. E se le era infilate nel naso, nelle orecchie: ‘Così finalmente la smetterai, di fumare’». Adesso ridono tutti. I due uomini escono fuori, in cortile: se ne accendono una.
Rossella intanto apre un cassetto dove custodisce alcune lettere indirizzate dai tifosi al figlio, dopo la morte. «Quelle che ci hanno colpito di più. Le altre, saranno migliaia, sono alla Fondazione. All’inizio il postino faceva non so quanti viaggi, mattina e sera. E la gente veniva a casa, come in pellegrinaggio, per lasciare un pensiero o consolarci. Bussavano anche in piena notte. Abbiamo dovuto mettere il cancello». Le missive continuano ad arrivare anche in questi giorni: “Io non ti ho mai conosciuto, però ti voglio bene lo stesso. Perché si capisce, che eri buono”, scrive un bimbo. Rossella è affezionata a una in particolare: è di una professoressa di Perugia, che allora raccontava di come i ragazzi siano fragili e spesso si proteggano con una corazza, dalla scuola e dalla famiglia. “Ma all’improvviso in classe sono comparsi disegni e foto del Sic, il suo volto sorridente mi insegue dappertutto – scriveva l’insegnante —, Marco continuerà a darci una mano, lo so”. Dieci anni dopo, la prof è diventata preside: nei mesi scorsi i muri esterni dell’istituto erano coperti di brutti graffiti, lei li faceva cancellare e il giorno dopo erano di nuovo sporchi. Così li ha fatti tappezzare con le foto del Sic. Niente più graffiti.
Paolo è rientrato, rovista e mostra una terza lettera: di Fabio, un ragazzo con la sindrome di Down che nella busta aveva allegato anche il suo più grande tesoro. Una foto col Sic. “Con tutti i campioni che c’erano, sei stato l’unico che si è avvicinato a me. Il viso simpatico, i capelli buffi. Insegna agli angeli a ‘piegare’. Ciao, ciao. Fabio”. Sul telefonino, il babbo conserva decine di foto scattate in tutto il mondo: tifosi che si sono tatuati sulla pelle il volto di Marco, il numero 58. E in tutti i circuiti, dal Giappone al Texas, lo fermano per farglieli vedere. «Mi sembra incredibile che sia stato – che sia ancora – tanto amato. Invece è tutto normale, perché lui era così: normale. È solo questo, il segreto».
L’ombrina in crosta era buonissima, con l’insalata di contorno. Ancora lambrusco, per favore. Rossella serve un dolce di quelli golosi, tra cioccolato e panna. «Gli piaceva tanto. Però doveva fare attenzione per via del peso, sempre a dieta. ‘Quando avrò 50 anni, voglio rifarmi. E avere un pancione così’, diceva sempre». Adesso ne avrebbe 34. Un anno in meno di Dovizioso, che la prossima stagione sarà il pilota ufficiale della nuova squadra italiana WithU. «Nel frattempo chissà quanti titoli avrebbe vinto. Oggi sarebbe ancora il numero uno», scommette Pernat. «Nessuno aveva il suo talento e la sua fame». Nemmeno Valentino? «Per un po’ sarebbe stata una bella lotta. Ma col passare del tempo, indovinate chi avrebbe avuto la meglio? Anche dal punto di vista della popolarità. Era un ragazzo vero, e al tempo stesso una specie di fumetto a mbulante».
Paolo sostiene che col passaggio in MotoGp da 800 a 1000 cc, dal 2012, il figlio – alto e pesante – ci avrebbe guadagnato di brutto. «E ci saremmo divertiti, soprattutto con Marc Marquez: hanno lo stesso modo di correre e pensare». Quella ‘fame’ di cui parlava il manager, «una cosa che non vedo più, nel paddock. Così come la personalità, la voglia di dare spettacolo. Questi giovani piloti invece sembrano prodotti in serie. A parte un paio di spagnoli: Martin e il ragazzino terribile, Acosta».
Rossella prepara il caffè. C’è anche un buon rum spagnolo. Pernat comincia a raccontare una barzelletta dietro l’altra, Paolo accetta la sfida. Rossella si scompiscia. Ad un certo punto prendono fiato. Ma in questi giorni che farete per ricordarlo? «Abbiamo rifiutato un sacco di inviti, tranne due. A Coriano, quando accenderanno la scultura di Arcangelo Sassolino voluta da Lino Dainese (una sorta di marmitta che emette una lunga fiamma): all’inizio mi sembrava una stupidata, poi mi sono emozionato alle lacrime. Succede tutte le domeniche da 8 anni, dura 58 secondi. Questa volta anticipiamo al sabato». E l’altro appuntamento, Paolo? «Pianteranno in suo nome una quercia all’altezza della curva della Quercia, appunto. È un albero che mi piace, volete vedere quello che abbiamo in giardino?». Dice che gli ricorda Marco. «Grande, fermo, accogliente. Generoso. Come il suo abbraccio. Gli piaceva stringerti, è una malattia che mi ha trasmesso. Ti regalava un piacere che non riesco a descrivere. Sentivi un sacco di cose. Qualcuno giura che era come abbracciare un nonno: ti dava sicurezza». I baffoni gli si increspano ancora, ma forse questa volta dietro non c’è un sorriso. «Quel ragazzo mi fa sempre commuovere. E sentire orgoglioso. Lo dico a bassa voce. Perché se adesso ci sente, ci prenderà tutti in giro».