Avvenire, 22 ottobre 2021
Ritratto di Franco Baresi. Un’autobiografia
Il boato di San Siro, il braccio alzato dell’uomo silenzioso a richiamare la difesa, poi l’anticipo secco sul futuro e un lancio in avanti che, magia del calcio, è giunto fino a noi. Fino al Milan odierno, quello di Pioli e di capitan Calabria. Uno spiovente che accarezza la testa del ragazzino delle giovanili rossonere, il quale se di mestiere pensa di fare il difensore non può che andare a studiarsi la storia e le gesta del “Capitano”. «Un capitano, c’è solo un capitano!», gridava ieri la Sud milanista rivolgendosi a Franco Baresi. «Non c’è stato mai nessun altro giocatore che ha capito così bene fisicamente lo spazio». Questo non lo ha detto il capo della Fossa dei Leoni e neppure uno smaliziato mister nostrano, ma un mago della cinematografia come Werner Herzog. Secondo il regista bavarese, uno che ha visto e ammirato da vicino al Bayern Monaco il “Kaiser” Franz Beckenbauer, Franco Baresi è stato il Fitzcarraldo del football, una fonte di ispirazione permanente, al punto da confessare: «Mi piacerebbe davvero nel fare i miei film, essere uno che riesce a capire il cuore dell’uomo e gli spazi come l’Amazzonia proprio come Baresi ha capito il gioco». Per capire il calcio nella sua essenza, bisogna averlo interpretato sempre e solo come un gioco. Ed è quello che ha fatto Baresi, il cui credo è racchiuso nel titolo della sua scarna ma emotivamente intensa autobiografia: Libero di sognare. Un sogno cominciato con la maglia di fuori (il suo segno distintivo), ai tempi sulle braghe corte, inconsapevole ancora dei grandi stadi, dei campioni da sfidare e dei viaggi intercontinentali che attendevano il piccolo e gracile Franco. Il ragazzino di campagna. «Amavo stare nella natura», racconta al suo mentore e scrittore Federico Tavola. Le corse, le discese ardite per fare il bagno nei fossi vicino ai campi in cui lavorava il padre contadino. Giocare a piedi nudi, sentire l’odore dell’erba per poi andare a lavarsi nella tinozza con l’acqua bollente del paiolo tirato giù dal focolare. E d’inverno il riscaldamento era quello della stalla, «grazie alla presenza degli animali». È così che è venuto su l’uomo libero, nato nella primavera del 1960 e cresciuto in fretta, mano nella mano alla sorella maggiore Lucia, rincorrendo in bici i fratelli Angelo e Beppe. Tutti nati a due anni di distanza l’uno dall’altro, fino all’arrivo, nove anni dopo, della piccola Emanuela. Il primo campo di pallone era quello dell’aia del casale dei Baresi, a Travagliato, nel bresciano. Un paese che reca già nel nome il destino avverso che attendeva in casa all’uomo libero. Un’infanzia felice e spensierata nella sua semplicità, con i tempi scanditi dalle stagioni non ancora calcistiche, ma quelle della semina e della vendemmia.
«Mi piaceva tagliare l’uva delle viti con le forbici o aiutare a eliminare dal raccolto foglie e scarti, ma la mia parte preferita era la pigiatura». Schiacciava grappoli con la stessa forza con cui calciava il pallone contro il muro già prima di entrare nella squadra dell’Uso (Unione sportiva oratorio di Travagliato). La società fondata nel rovente 1968 da don Piero Gabella. Un vero sessantottino con la tonaca quel prete trentenne che aveva capito che il calcio era la messa laica per i giovani e che i Baresi erano una razza pura da pallone. Angelo solo per un anno in più all’anagrafe non superò il provino all’Inter che invece ingaggiò di corsa Beppe. E dopo un doppio provino – il primo andò male –, quelli del Milan capirono che Franco, anche se dal fisico ancora tutto da forgiare, aveva la stoffa del giocatore vero. Beppe e Franco, passando da quella fabbrica di talenti dell’Uso di don Piero erano entrati nel calcio che conta e la famiglia si era trasferita nella nuova villetta tirata su dai genitori con il «sacrificio», il primo comandamento impartito a tutti i figli. Ultimi scampoli di felicità però, prima della grandinata dolorosa. Franco Baresi a 13 anni rimane orfano di quella madre attenta e dolcissima («negli anni ’60, la prima a prendere la patente al casale») e a 17 anni perde anche il padre, uomo tenace, forte e generoso. «Molti pensano che il tempo curi le ferite. Non sempre è vero – scrive Baresi –. Ci sono dolori tanto profondi che si rafforzano con l’età... Sento di aver costruito la mia carriera anche sul dolore e la rabbia». La carriera del capitano coraggioso di 719 battaglie. La bandiera rossonera dal 1977 al ’97. Un vincente. Tre volte campione del mondo: una con l’Italia al Mundial dell’82 e due Intercontinentali conquistate con il Milan – degli “Immortali” di Arrigo Sacchi e poi
con gli “Invincibili” di Fabio Capello – con il quale si è cucito al petto 6 scudetti. Già, “6”, come il numero della maglia leggendaria di Franco Baresi, ritirata per volontà del suo massimo estimatore, il presidente Silvio Berlusconi che su di lui, alla metà degli anni ’80, rifondò il Milan riemerso dagli abissi della B.
Nella sua autobiografia ogni capitolo comincia con il ricordo, anzi l’incubo del rigore sbagliato nella finale persa a Pasadena al Mondiale di Usa ’94. Quello, poteva essere il 2° titolo iridato dell’azzurro Baresi che giocò la finale sopra le forze – da infortunato come Roberto Baggio – e alla fine si arrese «a 11 metri dalla felicità», come scrisse Gianni Mura. La gioia divenne il pianto straziante in mondovisione dell’uomo libero tradito, con Baggio, dal dischetto del rigore. E solo con gli anni ha compreso che «la differenza tra il vincere e il perdere non sta nell’alzare o meno una coppa. È qualcosa di più profondo che non dipende dal sogno in sé ma da come si prova a realizzarlo». Parole da leader silenzioso. «Il leader si riconosce nell’uomo sincero. Non è sempre chi fa del proprio meglio, ma chi fa ciò che va fatto», ricorda Baresi. Testimone diretto del leader che fa sempre la cosa giusta al momento giusto, è stato il più grande di tutti, Diego Armando Maradona. «Il primo faccia a faccia con Franco Baresi l’ho avuto l’8 settembre 1981 in una gara amichevole. In quella partita mi doveva marcare Battistini… In una circostanza, saltai 3-4 di loro, stavo per entrare in area, ma arrivò Franco, e mi rubò la palla con una eleganza unica. Si girò verso Battistini e gli disse: “Si fa così… Ora ci penso io!” Da quel momento per me diventò dura...». Uno scontro tra giganti, due coscritti classe ’60:«Franco insegnava il modo di muoversi in campo a tutta la difesa. Non dimenticherò mai quel giocatore con la maglia numero “6”. Uno dei difensori più forti e leali di sempre», ha lasciato detto a futura memoria Maradona. Anche Baresi non dimenticherà mai quel genio ribelle argentino che, come lui, ha messo in questo sport tutto il «coraggio» e la «fantasia» possibile. Partendo dall’insegnamento del “Barone” Nils Liedholm quel ruolo del difensore staccato alla difesa lo ha portato al «cambiamento», alla «rivoluzione» copernicana. Libero di attaccare, salire fino all’area avversaria dove prima di lui, qui da noi solo Pierluigi Cera (Cagliari dello scudetto del ’70) e la bandiera juventina Gaetano Scirea – altro modello insuperato di lealtà –, avevano osato spingersi. Ora che tutto è cambiato, la saggezza del capitano lo porta a vivere con «tolleranza» un tempo che gli fa sussurrare con nostalgia: «Una volta tutto era più romantico. Rimpiango il calcio dove la libertà e la poesia erano caratteristiche essenziali del gioco. Oggi gli interessi personali prendono il sopravvento. Si pensa meno al gruppo e ai compagni. C’è degrado nel linguaggio verbale, ci si dimentica di chi ci circonda, si è perso il valore delle piccole cose». Per riscoprire quel valore, l’uomo libero alza ancora il braccio, e in un ideale San Siro dagli spalti pieni di ragazzi il Capitano Franco avverte paterno: «Qualunque cosa facciate, spero che la amiate senza mai smettere di sognare, perché, a volte, i sogni si avverano, come è capitato a me».