Linkiesta, 22 ottobre 2021
La messinscena delle donne du du du su Barbero
Idea per una scuola segregazionista: dividere i bambini dalle bambine secondo le ambizioni degli uni e delle altre; non «vuoi studiare matematica o fare la ballerina sulle punte», ma: da grande vuoi essere Alessandro Barbero o Annalisa Cuzzocrea?
Alessandro Barbero è uno storico. Fino a qualche mese fa ne sentivo parlare solo da gente che si sdilinquiva: amiche e amici pazzi di lui, che andavano a correre apposta per ascoltare i suoi podcast, gente che gli voleva produrre documentari serie filmini delle sue feste di compleanno. Barbero era il Baricco di questo secolo. Baricco era più figo, ma questo è un secolo troppo impegnato a indignarsi per arraparsi. Barbero l’ha capito – che ci piace indignarci – e quindi ha iniziato a darci, con scientifica costanza, opinioni che non ci piacessero. Su un po’ tutto, dalla pandemia alle – santo cielo – donne.
Accade che ieri Barbero venga intervistato dalla Stampa sul tema – santo cielo – delle donne. Giacché egli terrà a Torino un ciclo di conferenze su tre – santo cielo – donne. «Donne nella storia: il coraggio di rompere le regole». Né lui né l’intervistatrice dicono «ma vi pare che ancora dobbiamo dire se qualcuno che ha fatto qualcosa è uomo o donna, e se è donna è una notizia un titolo un tema di cicli di conferenze? Ma un progresso non lo facciamo mai? Sempre a dire “ci vorrebbe una donna” invece che “ci vorrebbe qualcuno di capace” siamo? Sempre attaccate alla vagina stiamo?» – d’altra parte la rivoluzione non la fa chi la dovrebbe fare, perché mai dovremmo aspettarci che la facessero le interviste.
Dunque a Barbero vengono fatte domande sulle donne e sulla loro fatica nel fare carriera. Lui, che ama alimentare gli schianti dell’internet ma fino a un certo punto, non risponde tutta la verità. Esempio ideale di risposta barberiana che ieri non abbiamo letto: «Veramente là fuori ci sono solo consigli d’amministrazione che ti tirano dentro così possono dire d’avere donne tra i membri, sui giornali c’è un pieno d’analfabete così le scrittrici non possono lamentarsi che sulle pagine ci siano solo firme maschili, persino i programmi meno adatti a ospitare donne fanno scalette terrorizzati pretendendo dalla redazione elenchi di nomi femminili da invitare e non importa se abbiano qualcosa da dire ma solo che si curino la cistite e non la prostatite, e le politiche più sceme vengono trattate come statiste perché concentrano i loro sforzi sul far risparmiare alle donne due euro l’anno di Iva sugli assorbenti, e insomma proprio non c’è mai stato nella storia un momento meno faticoso per farsi strada. Se nel 2021, essendo una donna, non riesci a far carriera, sei davvero una pippa».
Risponde invece un’ovvietà così ovvia che ci sono decenni di studi a riguardo, e la formula pure interrogativamente, più garbato di così neanche se avesse la vagina: «È possibile che in media le donne manchino di quella aggressività, spavalderia e sicurezza di sé che aiutano ad affermarsi?». Il catenaccio dell’articolo dice «provocazione», perché siamo dolcemente complicate, fragili, in attesa dei complimenti del playboy, e se ci dici che se vogliamo un aumento dobbiamo chiederlo ti diamo del patriarca prevaricatore: l’idea di carriera di molte donne è che un’azienda insista per pagarle di più. Mica vorrete che siamo noi così sgraziate e poco sexy da chiedere un aumento.
Il catenaccio dell’articolo conosce le sue polle, polle che passano la giornata di ieri a offendersi perché uno che ha letto più libri che cancelletti osa dire (neppure esplicitamente) che il divario salariale medio ha perlopiù a che fare col fatto che se fai la maestra lavori meno ore e hai ferie più sicure ma sei anche meno pagata di tuo marito che fa l’ingegnere su una piattaforma petrolifera. D’altra parte, se fai notare che i morti sul lavoro sono quasi tutti uomini, le pensatrici che Instagram si merita ti rispondono seriamente che è perché le donne non vengono abbastanza aiutate dal welfare e perciò non lavorano, altrimenti sarebbero tutte nei cantieri sulle impalcature e in altri luoghi in cui si crepa con maggior facilità che facendo la cassiera al supermercato.
E se ti dicono che le donne si dimettono dal lavoro perché il welfare è insufficiente, guai a far notare che i gruppi Facebook di mamme hanno principalmente la funzione di promemoria e coordinamento sul come truffare al meglio la collettività: ti fai certificare la gravidanza a rischio (nessun medico si prenderà la responsabilità di negarti il certificato) e poi, prima che tuo figlio compia un anno, ti dimetti; in caso di dimissioni entro l’anno del bambino, esse dimissioni sono ufficialmente colpa della società patriarcale che non ti aiuta a crescerlo, e quindi ti spetta il sussidio di disoccupazione. Eccoti in totale tre anni a casa a far niente mantenuta dalle mie tasse (sì, ho detto che chi cresce un figlio non fa niente: ve l’avrebbero detto anche le vostre nonne che ne crescevano sette mentre aravano i campi e lavavano i panni al fiume, e il tutto senza cianciare di burnout e sindrome dell’impostore).
In serata, l’argomento che questo sarà pure un buon momento per far carriera se sei donna media, ma è sempre un ottimo momento se sei maschio fesso, trova nuova vitalità: Michele Anzaldi chiede che la Rai revochi le collaborazioni a Barbero. Nessuno chiede la revoca del profilo Twitter di Anzaldi, con tutte le rughe che ci fa venire facendoci alzare gli occhi al cielo.
Cosa c’entra Annalisa Cuzzocrea, direte voi. (Avviso: Cuzzocrea è mia amica, o almeno lo era fino a quest’articolo). C’entra perché è una donna, ma c’entra anche perché ieri era la buona in un’internet in cui Barbero era il cattivo. L’altro giorno Cuzzocrea (giornalista di Repubblica) twitta che Giorgia Meloni (capo di Fratelli d’Italia – il partito, no il romanzo) è vestita interamente di nero. Meloni risponde che era vestita di blu, «quanto vi piace mistificare».
Meloni non è abbastanza spiritosa da citare Guccini («personalmente austero, vesto in blu perché odio il nero, e ho paura anche di andare in bicicletta»); Cuzzocrea non è abbastanza pronta da dirle d’essere meno complessata: il nero è il colore delle donne che non hanno tempo da perdere a pensare agli abbinamenti prima di andare verso la loro carriera al mattino, mica dei gerarchi.
In attesa d’un’intervista di Barbero sulle donne e la loro mancanza di senso dell’umore e prontezza di spirito, l’internet fa l’internet. Meloni scrinsciotta il tweet di Cuzzocrea, i fan di Meloni insultano Cuzzocrea, i fan di Cuzzocrea insultano Meloni. Cuzzocrea reclama per sé l’ambìto ruolo di vittima (hanno pubblicato i nomi dei miei figli, puntesclamativo), Meloni rilancia (i tuoi follower m’hanno dato della scrofa, ripuntesclamativo).
Si scomodano addirittura i comunicati ufficiali, che ci notificano che «nessuna intimidazione avrà l’effetto di distogliere Repubblica e i suoi giornalisti dal ruolo che ogni democrazia riconosce a un giornalismo libero». Il ruolo di dire di che colore è vestita la Meloni, perdindirindina.
Poiché, tra Cuzzocrea e Meloni, solo una è a capo d’un partito, e il giornalismo italiano è collettivamente fesso e convinto che, se non fossero mai esistiti Salvini e Morisi, sull’internet ci vorremmo tutti bene, si straparla di «bestia». Come se lo sfogatoio dei social non servisse a quello, come se al derelitto che insulta qualche personaggio noto prima di andare a buttar giù l’umido in ciabatte servisse una Meloni che lo incita, come se i politici fossero leader carismatici e non dei disgraziati qualunque: è egemonia se la esercita Chiara Ferragni, mica se la esercita Giorgia Meloni.
E ora dimmi, tu al secondo banco, che tu sia maschio o femmina, che la natura t’abbia dato il collo del piede adatto a ballare o le sinapsi adatte a fare le equazioni: da grande, vuoi essere la figurina della messinscena collettiva che fa scientemente partire i tamponamenti a catena sui social, o la figurina della messinscena collettiva che i tamponamenti li subisce e frigna d’essersi fatta più male di quanto sembri all’assicurazione?