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 2021  ottobre 21 Giovedì calendario

I Berliner a Roma


Dopo diciassette anni, tornano a Roma i Berliner Philharmoniker. Data unica il 21 novembre prossimo sul palcoscenico dell’Accademia di Santa Cecilia. Finalità dell’evento: «Un messaggio di solidarietà, speranza e fratellanza per tutte le vittime della pandemia».
Sul podio, Kirill Petrenko, in programma la terza sinfonia di Mendelssohn (Scozzese), la Decima di Dmitri Shostakovich scritta nel 1953, pochi mesi dopo la morte di Stalin, c’è nello sviluppo l’eco dei lunghi anni di dittatura. Non è la sola ragione per interessarsi a un evento che eccede la pura dimensione musicale. I Berliner non sono soltanto un’eccellente orchestra, tra le più celebrate al mondo. Questa compagine ha raggiunto una dimensione storica e, oso dire, politica grazie alla sua lunga vita, alle vicende che ha attraversato e che l’hanno fatta ciò che è. Se per un organismo musicale è lecito tirare in ballo la parola mito, mito musicale ovviamente, diciamo che i Berliner sono vicini a quel livello.
Corrono gli anni Ottanta dell’Ottocento quando l’impresario Hermann Wolff comincia a dare forma all’orchestra, inizio in sordina, come sede si adatta alla bell’e meglio un campo di pattinaggio. La fisionomia musicale la dà Hans von Bülow, grande direttore, carattere infernale, strenuo ammiratore di Wagner, marito sfortunato. Perché la continua vicinanza a quel genio fece sì che sua moglie Cosima ne diventasse l’amante per poi lasciarlo definitivamente. Non per questo venne meno la devozione del barone von Bülow; la sua era profonda, devota ammirazione per il Maestro, ma l’ostentata acquiescenza non mancò di dare alla sua figura un connotato tra sgradevole e ridicolo. Il vero direttore al quale i Berliner devono la definitiva acquisizione della loro fisionomia venne con Wilhelm Furtwängler (1886-1954), grande musicista, ambiguo come uomo, rivale di Toscanini con tale tenacia che ancora nel giugno scorso la Fondazione Toscanini ha organizzato un convegno di studio dal titolo “Toscanini e Furtwängler, due culture a confronto”.
Perché due culture? In che consisteva questa accanita diversità/rivalità?
I due direttori incarnavano due concezioni quasi opposte del fare musica. È un po’ la stessa antica questione se un attore (di teatro) debba calarsi nel personaggio fin quasi all’identificazione (è ciò che s’insegna ancora oggi all’Actors’studio, New York) o se invece debba mantenere un freddo, controllato distacco per meglio controllare scena e dizione. Per il “romantico” Furtwängler, l’interprete doveva avere piena libertà nell’esecuzione di un’opera perché stava a lui coglierne il significato profondo. Il che in parole povere voleva dire scelta di tempi, fraseggio, sonorità. Toscanini, al contrario, predicava, imponeva, la più oggettiva fedeltà alle indicazioni della partitura. Era un po’ un’utopia, perché poi nella concertazione ci metteva parecchio di suo – del resto in musica la fedeltà assoluta alla partitura è una chimera. Quello però era il suo dettato, il che spingeva l’ostile Furtwängler a definirlo un “maestro di scuola”.
L’idea che si debba eseguire solo ciò che c’è in partitura si rispecchia in un famoso episodio. Una volta a Londra, mentre provava la Terza di Beethoven, la famosa Eroica, rivolto agli orchestrali Toscanini disse: «Non è Napoleone, non è Hitler e non è Mussolini. È Allegro con brio!».
A un Toscanini antifascista, corrisponde un Furtwängler coinvolto con il regime nazista. Consolidò la sua carriera in quegli anni terribili, diresse più d’una volta concerti che celebravano i compleanni di Hitler; nel 1944 diresse un concerto a Praga per celebrare l’occupazione della città. Nonostante questo, si può credere a quanto disse dopo la guerra di non avere mai davvero aderito all’ideologia nazista. Probabile che l’abbiano motivato l’ambizione, l’indifferenza verso la politica, forse una certa pavidità. Patì una breve epurazione, riprese il suo posto, morì nel novembre 1954.
Il successore già scalpitava consapevole da tempo che quel podio sarebbe stato suo: Herbert von Karajan. Infatti divenne direttore principale dei Berliner e tale rimase per 35 anni dal 1954 al 1989 che è poi l’anno della sua morte.
Dinamico, ambiziosissimo, carismatico, visionario, padrone totale delle interpretazioni; dirigeva spesso a occhi chiusi (come si può vedere su YouTube) cioè non solo a memoria – anche Abbado dirigeva quasi sempre a memoria – ma come raccolto in se stesso. Un atteggiamento che gli causò qualche critica all’interno dell’orchestra per l’ostentata teatralità.
Con Karajan i Berliner sono diventati un’orchestra mondiale, protagonisti di spettacolari tournée negli Stati Uniti, Cina, Giappone – e naturalmente Europa, compresa Roma dove Karajan tenne un concerto nell’ottobre 1958 nell’auditorium di via della Conciliazione. Sala decorosa ma di vecchio impianto, prova dell’indifferenza delle amministrazioni romane nei confronti della musica. Dopo la chiusura del glorioso Augusteo, Roma, unica capitale europea, è rimasta per decenni senza un proprio auditorio. Quello nuovo, progettato da Renzo Piano, è stato inaugurato solo nel dicembre 2002 dopo sette anni di lavori.
Karajan è stato un direttore totale: talento, disciplina, volontà ferrea. La sua idea era che «tutto ciò di cui un’orchestra ha bisogno deve esserci in anticipo», dunque nessuna esitazione, nessun ritardo. Provetto sciatore, pilotava con uguale padronanza il suo jet privato e le più potenti auto sportive. Ebbe tutto ciò che un direttore può desiderare: in primis un’orchestra capace di toccare gli standard più alti dal vivo, nelle registrazioni, nei frequenti filmati delle sue esibizioni.
Eppure, anche un uomo di tale carisma dovette soccombere alla compatta volontà di quell’orchestra; il lungo e aspro contenzioso originò dalla sua volontà di includere nell’organico la clarinettista Sabine Meyer. L’orchestra era contraria e, dopo un lungo contenzioso, impose il suo no. Nell’aprile 1989 Karajan si dimise, tre mesi dopo morì. Erano già pronte varie ipotesi di successione. Prevalse quella di Claudio Abbado, indicato dalla stessa orchestra; a 56 anni il direttore milanese si trovò a capo di una delle più celebrate formazioni musicali del mondo. Già le prime scelte indicarono con nettezza in quale direzione si sarebbe mosso: Tre brani per orchestra op. 6 di Alban Berg (Drei Orchesterstücke op. 6); i Rückert-Lieder di Mahler, la Settima di Beethoven. In altre parole: classicismo viennese, romanticismo tedesco, un già consolidato stile moderno. L’inizio dell’incarico coincise con la caduta del Muro, un momento rivoluzionario che concise con la piccola rivoluzione portata dal maestro all’interno della compagine. La prima volta che si rivolse ai musicisti riuniti chiarì subito: «Non desidero titoli, per tutti sono Claudio». Rispetto al rigido formalismo, all’aura quasi sacrale che circondava la figura di Karajan era una novità da far sobbalzare, infatti più d’uno sobbalzò. Dodici anni è durato il suo incarico, in quel periodo Abbado ha portato tre volte i Berliner a Roma, nel ’93, ’96 e 2001 con ben sei recite. Quando ha dato il suo ultimo concerto, a Vienna, maggio 2002, nella celebre sala del Musikverein, gli applausi si sono mescolati a una vera pioggia di fiori. Sapevano tutti che il congedo era definitivo. Due anni dopo, a Bologna, il maestro moriva.
Ci sono stati altri direttori dopo di lui – Simon Rattle e l’attuale Kirill Petrenko – ma non è azzardato dire che l’orchestra conserva ancora la straordinaria trasparenza di suono che proprio con Abbado ha raggiunto il suo livello più raffinato.