Linkiesta, 21 ottobre 2021
La gratificazione istantanea di una nevrotica
La più importante definizione di quanto siamo capricciosi la scrisse Carrie Fisher, e la pronunciò Meryl Streep che la interpretava. Faceva così: la gratificazione istantanea ci mette troppo.
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Se pensate che, quando uscì Cartoline dall’inferno, era il 1990, mancavano cioè vent’anni ai cuoricini, decenni alla dipendenza da approvazione immediata, un secolo a quando saremmo diventati quel genere d’imbecilli cui importa non se un produttore si compri il loro ponderato lavoro costato mesi di fatica ma solo quanti nostri colleghi d’imbecillità scrivano «genio» sotto al penzierino che abbiamo gratuitamente concesso a Zuckerberg, beh, capirete che Carrie Fisher era un genio (uno vero, non uno da commenti Facebook), e anche che la situazione è grave.
Ma non di approvazione social intendevo parlare, bensì di diritto del lavoro.
Torno a casa dopo cena, e decido di buttarmi a letto a lavorare. Poiché da lì mi ero alzata per andare a cena (sono un’abitudinaria, non mi giudicate: siete come me), ritrovo sparsi sulle lenzuola (no, non ho mai rifatto il letto in vita mia, e sono troppo vecchia per cominciare) tutti i libri che stavo annotando per una cosa che sto scrivendo.
Solo che – il disordine ha una sua autonomia: le cose si spostano in tua assenza, e tu non puoi farci niente – il pennarello rosso è sparito. Inghiottito dalle lenzuola? Rotolato sotto il letto? Portato in un’altra stanza ma troppe ore fa perché me ne ricordi? Non si sa. Quel che si sa è che senza pennarello rosso non si può fare.
Lasciate che vi parli d’una mia nevrosi. Uso sempre gli stessi pennarelli. Li uso solo blu e rossi, ma m’ostino a comprarli anche in altri colori, perché non mi rassegno a essere noiosa e prevedibile. Quelli blu servono per prendere appunti, su blocchi sempre uguali (gialli, a righe, dice l’etichetta che servono agli stenografi di tribunale). Quelli rossi servono per annotare i libri: se li annoti con un colore troppo simile alla stampa, le sottolineature non risaltano quando li sfogli velocemente per trovarle. Ti tocca rileggerli daccapo ogni volta. L’anno scorso ci ho messo un pomeriggio a ritrovare la pagina, da indicare in una bibliografia, in cui c’era un passaggio che avevo già ricopiato nel mio testo ma fatto l’errore di sottolineare in nero nell’originale. Mai più.
Scavando nel disordine trovo solo pennarelli di colori sbagliati. Bestemmio pensando che intanto per stasera di lavorare non se ne parla, poi domani mi toccherà fare i ben cinquecento metri fino al negozio di quella marca. Ma vuoi che non abbiano un sito? Controllo. Ce l’hanno.
Sotto i cinquanta euro ti fanno pagare le spese di spedizione. Lasciate che vi parli d’un’altra mia nevrosi. Non pago le spese di spedizione. Mai. Mi rifiuto. Se il supermercato offre la spedizione gratuita acquistando venti scatolette di cibo per gatti, io le compro, pur avendo posseduto l’ultima volta un gatto quando frequentavo le scuole medie.
I pennarelli che uso costano un euro e novantacinque l’uno. Mica andranno a male, no? Li uso sempre. Almeno non avrò per un po’ il problema di non trovarne quando devo annotare. Quanto posso metterci a perdere ventisei pennarelli nel disordine di casa? È un affarone, orsù.
Quando arrivo alla pagina di spedizione, scopro che smisteranno l’ordine in quindici giorni lavorativi. «Lavorativi» mi fa venire certi nervi che solo «in presenza». Cosa vuol dire quindici giorni lavorativi, santiddio, dimmi tre settimane. E a quel punto ti dirò quel che sto per dirti comunque: tre settimane per spedirmi dei pennarelli? Cosa siamo, nel 1985? Sono indignata. Clicco lo stesso.
Certo che potrei fare i cinquecento metri fino al negozio, ma il problema non sono i cinquecento metri, l’ha spiegato Virginia Woolf un secolo prima dell’e-commerce: «Ogni volta che entro in un negozio nella mia anima si solleva una specie di nuvolone di polvere e poi come faccio a scrivere il giorno dopo?». (Com’è tutto facile, quando la citazione giusta l’hai letta quand’avevi il tuo bravo pennarello rosso e quindi sottolineata). Non posso rischiare il nuvolone e l’improduttività. Clicco la consegna in tempi da slitte trainate da renne. A Natale sarò piena di pennarelli.
Tuttavia, non ho risolto il problema delle note istantanee. Buongiorno, signor editore, non posso consegnare questo tomo in tempo, giacché la bibliografia non può essere consultata senza i pennarelli che gli aiutanti di Babbo Natale ci metteranno tre settimane a impacchettarmi.
È allora che intravedo la soluzione. Sul mio comodino c’è una scatola. Contiene cose piccole a casaccio. L’ho aperta l’altro giorno cercando una pinza per i capelli. E ricordo perfettamente di averci visto dei segnapagina, quei cosetti adesivi che metti sulle frasi che devi ritrovare, e poi spuntano dal libro, e non hai neanche il problema di dover sfogliare tutto per trovare il segno che se poi è nero magari non lo trovi lo stesso. Cosetti colorati, voi mi risolverete la serata.
Senonché apro la scatola, e ce ne sono due blocchetti. Solo due. Certo che per stasera basteranno, saranno almeno venti a blocchetto, quante pagine posso mai compulsare prima di dormire. Ma lasciate che vi parli d’un’altra – un’altra ancora – mia nevrosi.
Non uso ciò che potrebbe finire. La gratificazione istantanea deve avere una scorta. Se apro l’ultima limonata e poi me ne va un’altra? Se indosso l’ultima camicia stirata e domattina arriva a sorpresa la grande occasione per cui devo essere presentabile? Se appiccico l’ultimo cosetto adesivo a pagina 75 e poi a pagina 77 trovo il paragrafo che non posso non citare e non so come marcarlo e me ne dimentico e la mia opera ne risente in modi la cui portata mi è ignota?
Quindi, a quel punto, vado su Amazon. Cerco i cosetti adesivi. Li trovo. Amazon mi dice pure che li ho già comprati (Amazon è peggio d’una suocera). È mezzanotte meno cinque. Amazon mi dice che, se ordino entro quattro minuti, mi arrivano domani. Cinquecento cosetti adesivi divisi in dieci colori per un totale di cinque euro e zero nove, spedizione gratuita perché sono abbonata a Prime e quindi per trentaequalcosa euro l’anno tutte le spedizioni sono gratuite (e posso pure guardare Dinner club).
Ed è a quel punto che mi sento sbagliata. Mentre clicco sull’acquisto con consegna garantita entro domani, e la carrozza si trasforma in zucca, e un magazziniere notturno dovrà correre a impacchettare i miei cinque euro di cosetti adesivi, e un fattorino dovrà precipitarsi a metterli in un furgone che me li recapiti domani, e il tutto con quale margine di guadagno?
Quante tasse deve non pagare, Jeff Bezos, perché la mia soddisfazione immediata gli procuri un profitto? Quante mance devo dare, a questi poricristi che, moderni schiavi, s’arrabattano perché la principessa non stia mezza giornata (lavorativa) senza i suoi cosetti adesivi? Quante lezioni di economia politica dovrei frequentare, nel tempo libero, per capire cosa ci sia che non vada in tutto questo? Certo, questa gente sarà pur meglio abbia un lavoro – fosse pure il lavoro di portarmi i cosetti adesivi – che niente: lo dice anche lo spot di Amazon, in cui con lo stipendio da magazziniere il ragazzo paga le cure al parente invalido. Ci vuole pure qualcuno che, a botte di cosetti adesivi con cui gratificarsi istantaneamente, contribuisca a pagargliele.
Più che Carrie Fisher mi sento Fulvia. Sì, quella di Pericoli&Pirella, ultimamente la cito spesso perché la penso spessissimo. Mi sento in quella vignetta del ’77 in cui diceva di aver invitato a cena «il sottile critico teatrale, l’elegante corsivista, il finissimo traduttore, il piccolo raffinato editore… E il pittore gestuale: ci vuole pure qualcuno per aprire le bottiglie di champagne».