Linkiesta, 20 ottobre 2021
I maschi, le femmine e la figlia di Pitt e Jolie
Nel 2006, quando Shiloh Jolie-Pitt aveva pochi mesi, mi trovai – assieme ad altri disgraziati i cui giornali vogliono poter mettere in copertina una foto d’una bella attrice e dire «ha parlato con noi, proprio con noi» – attorno a un tavolo al quale, per venti ambìti minuti, si sarebbe seduta Angelina Jolie – a parlare con noi, proprio con noi.
L’ufficio stampa aveva fatto quel che gli uffici stampa fanno in questi casi – dirci che le domande personali erano bandite, intendendo con «domande personali» tutto ciò che attiene a cose più interessanti e che fanno vendere più i giornali di «ci parli del film che è qui per promuovere» – ma Angelina Jolie non era mica una starlette che ha paura di quattro cavalli e quattro segugi che vogliono sapere i fatti suoi.
Shiloh era l’argomento di cui tutti volevamo parlare, per molte ragioni.
Era l’unica neonata bella della storia del mondo, al netto della scarrafonite, la sindrome ormonale per cui alle madri i neonati sembrano comunque bellissimi. I neonati sono in genere cosine grinzose che guardi sperando che poi migliorino. Shiloh era sulla copertina di “People” un minuto e mezzo dopo il parto, ed era bellissima, liscia come chi è fuori dall’utero da mesi, evidentemente bionica come la madre.
Ed era la prima figlia biologica, Angelina (e poi Brad) avevano adottato un maschio e una femmina in precedenza (e avrebbero adottato un maschio già quattrenne l’anno dopo, e successivamente avuto altri due figli biologici, gemelli).
E all’epoca Brad e Angelina sembravano una coppia perfetta: bellissimi; multietnicissimi: il primo adottato era cambogiano, la seconda etiope; attentissimi alle buone cause molto prima che diventasse un dovere, per la gente di spettacolo; disattenti alle puttanate cui badano gli americani e l’Italia meridionale (questa frase verrà presa benissimo sui social), ovvero il matrimonio. Non si sarebbero sposati per altri otto anni (per poi separarsi dopo due; sono ancora coinvolti, a cinque anni dalla separazione, in un perpetuo litigio tra un tribunale e l’altro, per un po’ tutto, dall’affido dei minori ai soldi).
Brad e Angelina erano la sacra famiglia, e qualcuno doveva chiedere l’inchiedibile: cosa c’è di diverso nella figlia che è carne della vostra carne, rispetto a quelli adottati? Toccò a me, che feci tutt’un giro di parole. Angelina mi sorrise con la condiscendenza d’una sovrana benevola. È la stessa cosa, disse, «tranne che Shiloh è uguale a Brad». A Brad, mica a lei.
Se fossero stati anni in cui si portava già il discorso sull’identità di genere degli esseri umani di qualunque età, se fossero stati anni in cui un discorso del genere fosse parso sano di mente, a quel punto avrei dovuto capire.
Ma era un’epoca in cui si sapeva che il genere sessuale era quello con cui nascevi, in cui non si cadaverizzavano le parole dividendo tra «sesso» e «genere», e quindi registrai la risposta e la trascrissi con soddisfazione. Shiloh somiglia al papà, che cosa carina.
Due anni dopo, il papà dice a Oprah Winfrey che Shiloh vuol essere chiamata John. «Oppure Peter, perché le piace Peter Pan». A riascoltarlo adesso, si prova il brivido con cui visiti un museo di storia antica: ve lo ricordate, c’è stata un’epoca in cui sapevamo che se un bambino dice che è Superman (o Peter Pan, o Cenerentola, o Dumbo) non dobbiamo preoccuparci della sua identità di genere, è solo un bambino che gioca a essere un superoe, o una femmina, o un elefante. Ve la ricordate, quell’epoca remota?
Altri due anni dopo, Shiloh ne aveva quattro, la mamma disse che alla piccina piaceva vestirsi da maschio, si era fatta tagliare i capelli corti, «pensa d’essere uno dei suoi fratelli». Era un’ovvietà, undici anni fa, quando eravamo una società sana di mente: una bambina che fa il maschiaccio non ha un disturbo psichiatrico, non ha bisogno d’essere curata dal sesso che la natura le ha fornito, non ha bisogno che la società le assegni una nuova identità da registrare nei documenti: vuole somigliare ai fratelli più grandi, poi passa.
(A volte non passa, e allora una diventa un’adulta con gusti da maschiaccio, succede; a Katharine Hepburn stavano meglio i pantaloni, e per sua fortuna visse in un’epoca in cui un dettaglio del genere faceva di te un feticcio modaiolo invece che una malata di mente che si percepisce d’un altro sesso e che la società decide di curare illudendola che il sesso si possa cambiare con la facilità con cui cambi i pantaloni).
L’altro giorno Bari Weiss è stata intervistata sulla Cnn. Le hanno chiesto perché abbia scritto nella sua newsletter che il mondo è uscito di senno. Con una formula di quelle che piacciono a Aaron Sorkin, il quale una volta fece dire a un personaggio che scriveva i discorsi del presidente degli Stati Uniti che quella formula lì era «a little thing called cadence», Bari ha fatto l’elenco d’indicibilità che l’avevano convinta della deriva folle, elencando episodi accaduti quand’era nella redazione degli editoriali del New York Times e anche dopo; tra di esse, «quando non si può dire in pubblico che esistono differenze tra maschi e femmine, vuol dire che il mondo è uscito di senno».
La stessa sera Shiloh era alla prima d’un film assieme alla mamma e a fratelli e sorelle. Indossava un vestito che più da femmina non si può, e ballerine forse dovute al fatto che l’anno scorso è stata operata all’anca, ma che evocano un effetto bullismo sulla sorella che ha un anno più di lei ma è alta decine di centimetri in meno.
Un’amica mi ha girato la foto della prole Jolie con un messaggio che rievocava il fatto che all’asilo Shiloh si sentiva maschio, e che il fatto che ora sia evidentemente femmina forse dovrebbe farci riconsiderare questo delirio collettivo del non aspettare che diventino adulti prima di prendere sul serio le loro istanze. Ho rilanciato ricordandole che ora ha, Shiloh, quindici piccolissimi anni: fa in tempo a cambiare idea sulla propria identità – sessuale e di qualunque altro sottinsieme – altre venticinque volte (stima per difetto).
Ma sia chiaro che io tutto questo non l’ho scritto, perché sto sui social da abbastanza tempo da sapere che dire come la pensi è un diritto inalienabile, ma assai più inalienabile è il diritto a non farsi rompere i coglioni dai giustizieri social e dall’ideologia totalitarista che va di moda nel periodo in corso. In questo caso, quella secondo la quale la mutevolezza dell’identità sessuale non è affatto segno di malattia mentale, e anzi dirlo mette in pericolo i malati di mente.
Se do delle goccine a quello che si sente Napoleone non lo sto tutelando, macché: sto dicendo che va picchiato e discriminato e ucciso; è annuendo di fronte alla follia e dicendo che è davvero Napoleone, che dimostro di averlo a cuore.
Come ha detto Bari Weiss sulla Cnn, parlando della viltà del New York Times ma anche della nostra di carneadi con uso di social: ma io perché dovrei passare settimane a smistare insulti se dico una cosa indicibile, quando posso commissionare un editoriale in cui ci sia scritto che Donald Trump è un mostro immorale? Vuoi mettere quant’è comodo.