la Repubblica, 20 ottobre 2021
La storia di Julij Daniel’
Il 30 dicembre 1988, Sergej Adveenko porta con sé un suo amico italiano, corrispondente a Mosca del quotidiano La Repubblica, nella casa in cui è appena morto Julij Daniel’. La notizia è segreta, perché il nome del traduttore, scrittore e poeta – protagonista del primo processo al dissenso nel 1966 – non si può pronunciare senza allertare gli apparati, ancora potentissimi nonostante gli scricchiolii della macchina sovietica: ma tutti gli intellettuali, attori e registi russi lo conoscono, lo rispettano, e vanno a rendergli omaggio. Ezio Mauro entra nell’appartamento n. 52, al secondo piano di via Novaja Pisanaja. Gli presentano il figlio del morto, la seconda moglie, il figlio di lei. Il giornalista non può sapere – nessuno scrittore può sapere quando concepisce davvero un libro – che quella visita genererà un’ossessione lunga 33 anni; che per ricostruire la vicenda di Daniel’ si lancerà in una ricerca infinita (di testimoni, materiali, libri, atti processuali) che non finirà con il crollo dell’Unione Sovietica nel quale si è consumata, e anzi la fine del comunismo e l’oblio che a poco a poco la avvolgerà la renderà più necessaria e più urgente: ricerca sigillata solo adesso, con la pubblicazione de
Lo scrittore senza nome. Mosca 1966: processo alla letteratura.
Ezio Mauro in realtà relega ai Ringraziamenti la nota sulla genesi di questo libro appassionato, teso e doloroso: a differenza della maggior parte degli scrittori contemporanei, che impongono la loro presenza nella storia vera che si accingono a ricostruire (in forma di romanzo o di saggio) e fanno dell’indagine oggetto di narrazione, si eclissa, cela indagine e identità nella voce in terza persona del romanziere, diventa un’ombra. Una scelta di pudore forse dovuta alla sua storia professionale (è stato per vent’anni direttore de La Repubblica, anche se in seguito si è dedicato alla scrittura di reportage e saggi storici), certo appropriata al suo soggetto. Daniel’ infatti, privato dell’identità, è egli stesso un’ombra.
Eppure una misteriosa circolarità avviluppa le vite di Mauro e di Daniel’. Anche la storia di Daniel’ incomincia con una morte: quella del poeta Pasternak, la cui bara il giovane Daniel’ – reduce della grande guerra patriottica, poeta e aspirante scrittore – sorregge, insieme ad Andrej Sinjavskij, il giorno del funerale. Quel gesto di devozione – immortalato in una piccola foto che figura nella scarna appendice visiva del volume – segna l’inizio dell’amicizia con il più noto Sinjavskij (già professore e critico letterario), e avvia l’inesorabile catena di eventi che lo condurrà prima a diventare lui stesso scrittore, poi, per desiderio di pubblicare opere altrimenti “morte” e senza lettori, a esportarle clandestinamente all’estero, sull’esempio del Dottor Živago. Non avrebbero infatti speranza di vedere la luce in patria perché la politica culturale del Pcus obbedisce ancora supinamente al rapporto Ždanov: gli scrittori sono «ingegneri delle anime, con le loro opere devono educare il popolo, conducendolo verso l’edificazione del comunismo, combattendo per la rieducazione delle coscienze nello spirito del socialismo».
Stampate con lo pseudonimo di Nikolaj Aržak, fanno di Daniel’ uno scrittore fantasma, ma letto clandestinamente anche in Russia, e finiscono per indurlo a commettere imprudenze che dopo cinque anni di indagini permetteranno al Kgb di scoprirlo (anche per la delazione di alcuni amici) e incarcerarlo alla Lubjanka, fino al processo per “propaganda antisovietica” e alla condanna, in base al famigerato articolo 70, a cinque anni in un campo di lavori forzati nei boschi di Dubravlag.
Il processo ai due scrittori, nel febbraio del 1966, nelle intenzioni delle autorità doveva dimostrare che i timidi spazi di libertà aperti dalla stagione del disgelo si erano richiusi, e che il potere riassumeva il controllo delle arti. Ma dichiarandosi non colpevoli, i due scrittori incrinarono il sistema. Il processo – che ebbe vasta eco (anche internazionale, grazie al Libro bianco di Ginzburg) e segnò l’inizio del dissenso in Unione Sovietica – è il cuore del libro: il duello verbale fra accusa e difesa degno di un legal thriller, e la lettura un’esperienza intellettuale che pone tutt’oggi interrogativi inquietanti sul potere, la propaganda, la manipolazione dell’opinione, la libertà di pensiero, l’etica.
Ma ciò che ha affascinato Mauro è la sua natura anomala, paradossale, letteraria. Non si processavano infatti tanto i libri – era già accaduto al Dottor Živago – ma gli scrittori, cioè la scrittura stessa. Perché «in ogni libro c’è un pensiero. E se quel pensiero ha concepito l’errore una volta, è colpevole sempre». E va annullato. Così i libri diventano il reato e nella requisitoria pesano le trame, le scene, i personaggi (è un crimine l’assenza dell’eroe positivo), si confondono le opinioni dei personaggi inventati con quelle degli autori, l’immagine artistica viene interpretata alla lettera. «Ma chi stabilisce quando uno scrittore nei suoi testi ha un obiettivo politico o artistico?». È il potere che arbitrariamente fissa il confine fra letteratura e propaganda. «Voi giuristi – afferma Sinjavskij nell’autodifesa – avete a che fare con termini che quanto più sono ristretti, tanto più sono esatti. Il significato dell’immagine artistica invece è tanto più esatto quanto più è ampio… la letteratura non si può valutare con formule giuridiche».
Mauro del resto non valuta la qualità dei libri incriminati né la loro tenuta: quelli di Sinjavskij e del suo alter ego Abram Terz, più volte ristampati, figurano ancora nei cataloghi delle biblioteche, quelli di Daniel’ ingialliti nelle edizioni degli anni Sessanta. Ma il suo libro è doppio (una “coppia”, come i protagonisti). Se processo e contesto sono narrati dallo storico e dal giornalista (il volume è corredato da bibliografia e fonti), le pagine più coinvolgenti sono quelle dedicate all’esistenza di Daniel’ dopo il processo. Gli anni dei lavori forzati nella foresta, e poi del confino a Kaluga e della persecuzione metodica degli apparati, che controllandolo sistematicamente non gli permetteranno mai di tornare padrone della sua vita. Impedendogli di lavorare, di firmare le sue traduzioni, costringendolo a usare uno pseudonimo – Ju Petrov – da loro inventato per cancellarlo, fino ad allestire «un labirinto assurdo, possibile solo in Russia. Uno pseudonimo maschera i versi tradotti da un uomo condannato per aver pubblicato un libro sotto falso nome». In esse risuona la migliore letteratura russa – da quella del gulag di Šalamov e Solženitzyn ai classici sinistri di Gogol e Tynianov, fino a Grossman e Bulgakov (le donne dei due scrittori, compagne indomite e coraggiose, sono degne di Margherita). E i pedinamenti, le intercettazioni, gli incontri con gli istruttori mefistofelici e insieme banali comunicano «il fascino terribile» di un mondo immaginato per durare per sempre, e invece già in decomposizione. Il resoconto di un fatto diventa un personalissimo viaggio nelle vite e nei libri degli altri, e Mauro fa di Daniel’, dongiovanni schivo, dedito unicamente alla scrittura, eroe involontario – ma positivo, sì – un personaggio degno della immensa letteratura russa.