la Repubblica, 20 ottobre 2021
Nella casetta di Renzo Piano dove le detenute potranno veere i loro figli
«È una casetta che somiglia a una casetta. Così come la prigione somiglia alla prigione». E si chiama “Mama”, aggiunge Renzo Piano. Mama è un acronimo di qualcosa, ma è anche l’intercalare dell’amore: ma’, mama… mamma, se è vero, come dicono i dizionari, che è la prima sillaba che il neonato pronunzia: “ma”. E poi, inseguendo chissà quale suono o quale ombra, il neonato ripete e allunga, deforma e raddoppia: “ma-ma-ma-ma-mama, mamma”. Che altro nome poteva avere una casetta di legno arancione adagiata sul prato dentro la prigione femminile di Rebibbia? Per prima cosa Mama è infatti l’alternativa allo squallore del parlatorio, il luogo della tristezza e della durezza, dell’intimità in pubblico che è il più dolente degli ossimori.Questo è invece il miniappartamento degli affetti dove, appunto, la mamma detenuta riceverà i suoi bambini che, a partire dai 4 anni d’età, la legge non le permette più di tenere in cella con sé. E l’intimità è garantita dalla piccola architettura, anche se fuori ci sarà il piantone, tra il melograno, le magnolie e gli arbusti di ribes. È ovvio che sull’uscio anche il carceriere non somiglia a un carceriere, ma a una guardia del corpo o a un portiere. «E si capisce che le parole e gli abbracci, la casa e lo stare insieme sono un’ottima terapia anche contro il far male a se stesse» dice Pisana Posocco, architetta veneziana che insegna alla Sapienza, e più di tutti gli altri ha lavorato con Renzo Piano per questa casetta di Rebibbia, e con il carcere ha la stessa dolce e tormentata ossessione che Quasimodo aveva con Notre-Dame. Per studiare le prigioni è andata pure in Norvegia, nel carcere modello di Skien dove lo stragista Breivik sta scontando la sua pena: 21 anni, (rinnovabili). «Mi hanno offerto da dormire, ma di notte non riesco a stare chiusa». A Rebibbia le detenute sono 320 e Pisana Posocco ne conosce tante: «Ci sono cinque irriducibili brigatiste – racconta – e sono un’enclave, una comunità nella comunità. Hanno pochi rapporti con le altre, e a volte si riuniscono al mattino per pregare».Alla fine Mama è un omaggio alla mamma, che ovviamente in carcere pensa alla casa, sogna la casa, «e spesso è dentro per colpa di qualche maschio, marito, compagno, amante o fratello che sia» dice Piano. Non esiste in architettura “lo stile materno”, ma questa casetta in prigione forse è proprio questo: un piccolo rammendo materno. «Noi la guardiamo – dice Piano – e ci sembra la casa come la disegnano i bambini, ma forse è la casa immaginata per un bambino da una mamma prigioniera».Chiedo come immagina la casa a una detenuta piccola e scura che mi dice il nome, ma poi poggia la mano aperta sopra il taccuino e va a chiedere il permesso alla guardia carceraria: posso dire il nome al giornalista? Meglio no, niente nomi e niente reati. La casetta che mi descrive però è una piccola magia senza sbarre: soggiorno, letto, cucina e bagno. Come quella di Renzo Piano? «Come quella». E c’è qualcosa di romantico anche nel soffitto spiovente di quattro metri e sessanta, che è il contrario del soffitto basso delle celle e provoca una specie di effetto cielo come nella canzone di Gino Paoli. Alla fine la casetta è il trionfo del concetto di “tipo": “Una casa è una casa è una casa” si dice in architettura parafrasando l’Eliot di “una rosa è una rosa è una rosa”.E un architetto come immagina la prigione? «Non ne ho mai disegnata una, ma ci penso spesso. Annamaria Cancellieri che era ministro della Giustizia del governo Letta, aveva delle belle idee sulle carceri e mi aveva proposto di progettare un carcere modello. Poi, purtroppo non se ne fece niente. Comunque, se una casa in prigione deve somigliare il più possibile a una casa, una prigione deve somigliare il meno possibile a una prigione». Anche l’architetto Piano a 84 anni non somiglia a un architetto tipo, non è eccentrico e non veste di nero, non è “total black” come dicono i modaioli a Milano, non è asimmetrico neanche nell’abbigliamento, nelle abitudini, non è il creativo, il “famolo strano” che, in architettura, è anche la nobiltà dell’ellissi, dal manierismo al barocco sino al moderno e a Bruno Zevi che diceva: «La simmetria è fascista». Invece Piano è oggi una specie di modello da passerella antropologica, maestro di morale e prototipo del bel vecchio italiano senza bile, come furono Gassman, Montanelli e com’è Scalfari che però è molto più vecchio. «Quando la vecchiaia diventa bella lo senti dentro». È infatti così che lo ricevono, come un vecchio principe della morale che forse ha colto con la sua casetta il twist che sta cambiando l’idea di pena e di galera: «Mi piacerebbe accendere la scintilla degli affetti nelle carceri». Forse la casetta Mama acchiappa per la coda il mondo nuovo della giustizia, tra la riforma Cartabia, i sei referendum radicali, la crisi della magistratura, la battaglia contro “il fine pena mai” che, dice Piano, «nega il cambiamento delle persone, impedisce a chi cade di rialzarsi, trasforma la giustizia in vendetta». Monica Cirinnà è la relatrice di una legge che prevede la casetta Mama in tutte le carceri italiane. Commenta Piano: «Non si può replicare la casetta com’è, ma la funzione sociale, sì». «E mi lasci sognare – dice Lucia Merenda che ai detenuti di Rebibbia insegna italiano —: dalle casette dell’affetto si dovrebbe poi passare alle casette dell’amore come già avviene in tanti altri Paesi civili».L’inaugurazione è festosa: «Mi piace trovare in carcere quest’ottimismo». La casa l’hanno fatta tre detenuti maschi del carcere di Viterbo, diretti dal mastro artigiano Eriberto Berti. I tre detenuti hanno avuto pure l’encomio scritto, ma oggi non li hanno invitati perché le loro pene sono troppo alte e il regolamento è il regolamento: il più “leggero” ha ancora nove anni. Le guardie vorrebbero evitare i nomi, ma si sa come sono gli operai dell’edilizia, tutti come il padre di John Fante che guarda i mattoni e le pietre e ama le case più dei proprietari, proprio perché per lui non diventeranno mai “la roba”. Tanto più se sono pure detenuti i muratori o, in questo caso, i carpentieri- falegnami, visto che tutto è legno. Di cemento c’è solo, nas costa, una platea di 50 centimetri di fondamento: «Se ci fosse un terremoto la casetta resterebbe in piedi».Dunque, onore ai tre artisti del legno Aleks Boci, un albanese, Boris Atanaso, un bulgaro, e Andrea Cacciatori, un italiano. Onore alle detenute che hanno fatto il lavoro di rifinitura e che ora si stringono attorno a Piano per la foto, che scatto io (e, ahimè, si vede): peccato che manchi la più tosta, quella che aveva scritto sul viso “never give up”, non mollare mai. È in alta sorveglianza. E onore infine al piccolo rammendo materno di Renzo Piano e dei ragazzi del suo G124 che stanno lavorando in tutte le periferie d’Italia, in tutti i luoghi dell’umanità confinata dove “una casa è una casa è una casa”.