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 2021  ottobre 20 Mercoledì calendario

Violenza, sequestri e fame nelle strade di Haiti


PORT-AU-PRINCE
Vedere con i propri occhi i numeri del dramma di Haiti suscita per un verso sgomento, per l’altro sdegno assieme all’urgenza di gridarlo comunque. Chi ha letto il rapporto 2020 sulla fame e la denutrizione nel mondo redatto dalla Fao sa che il 48,2% della popolazione di Haiti (più di 5 milioni di persone, poco meno della metà della popolazione del Paese) patisce una fame cronica; il 21,9% dei bambini sotto i 5 anni soffre di arresto della crescita, il 6,5% muore. Il 70% della popolazione è senza assistenza sanitaria, il 60% senza accesso all’elettricità, il 27% vive sotto la soglia di povertà... e si potrebbe continuare.
Mentre atterro a Port-au-Prince, capitale di questa nazione martoriata, ho in mente anch’io questi e molti altri tragici numeri che ho letto per prepararmi a un breve viaggio. Vengo da Santo Domingo e chi ha fatto questo volo si accorge della frontiera tra i due Paesi dal cambio di paesaggio: verde quello da dove viene e il deserto quello dove si atterra. E già questo mette sull’avviso. Quando poi la macchina che mi accompagna inizia ad attraversare la città, lo spettacolo di nugoli di bambini e cumuli di spazzatura mi assorbe: i numeri diventano volti (quale fra la ventina dei più piccoli che ho visto non festeggerà i cinque anni?). Neanche le frenate brusche per evitare le infinite buche delle strade dissestate mi distraggono. Al più mi ricordano che dobbiamo mantenere la velocità elevata e rimanere attaccati alla macchina della scorta: proprio ieri hanno rapito diciassette missionari protestanti – in una delle numerose zone abbandonate del Paese – e non è il caso di fare soste o deviazioni.
Per molti giovani i rapimenti sono diventati, così mi raccontano, l’unica fonte di reddito della loro vita. Non ci sono praticamente prospettive di lavoro, la più prospera è quella dei sequestri. Il 70% della popolazione è sotto i 30 anni! I giovani più fortunati, e i pochi che non si arrendono malgrado tutto, sperano di prendere al più presto il diploma e di volare negli Stati Uniti: anche loro pretendono un pezzetto del sogno americano, e non importa se questo significa abbandonare il loro Paese, le loro famiglie, i loro amici.
Haiti sembra non avere nulla da dare al 65% della sua popolazione che ha meno di 25 anni. Se poi sono donne, il destino è ancora più triste e pieno di violenza: sopravvivere alla fame non è sempre foriero di buone notizie. Lo sfruttamento delle ragazze e delle bambine è abitudine quotidiana.
Mi mostrano alcuni articoli che raccontano come si scappa da Haiti. Per raggiungere gli Stati Uniti un giovane haitiano deve andare nella vicina Santo Domingo e da lì prendere un volo per il Cile, l’unico Paese del continente americano che non chiede il visto. Dopo alcune settimane di lavoro per racimolare qualche soldo si mette in marcia e, a piedi (sì, a piedi!) inizia un viaggio che dura anche tre mesi e che attraversa tutto il Centramerica. Chi resiste ai passaggi in mare, sui valichi montani e attraverso le foreste, si trova a un certo punto il Rio Grande che segna il confine tra Messico e S tati Uniti e il muro che in tutti i modi cerca di contenere questa onda continua. Sono dati che conosco, ma sentire i racconti carichi di rabbia e delusione e vedere le immagini delle persone travolte dalle acque del fiume volutamente innalzate per “pulire” il Rio Grande è un’altra cosa.
Il vuoto politico e culturale di questa nazione – la tragedia dell’assassinio del Presidente rende il vuoto politico ancor più drammatico – sposta la speranza all’esterno dei suoi confini: ogni visitatore è accolto con favore ed è destinatario di una richiesta di aiuto. Insistono: qui manca totalmente la speranza per il domani e l’oggi è invivibile. Ci sono esempi e me li presentano di Ong e associazioni straniere che hanno progetti di risanamento e di sviluppo.
Mi commuovono alcuni giovani di Sant’Egidio che con la “scuola della pace” si impegnano a far crescere più serenamente, per quanto possibile, i bambini di uno slam della capitale. Ma è come la goccia nel mare, o meglio nel deserto di vita e di speranza. Mi chiedono di parlare di loro al Papa, convinti che la sua autorità morale possa innescare un rinnovamento in una popolazione che non riesce a trovare al suo interno una forma strutturata e feconda per affrontare la situazione in cui versa.
Penso al recente discorso che Papa Francesco ha rivolto ai movimenti popolari latinoamericani in cui ha lodato la loro capacità di accompagnare e fare crescere un popolo e mi chiedo se possa valere anche qui. Vedo un popolo resiliente che attende un nuovo futuro per il proprio Paese. Vedo il bene che fanno quei progetti che, seppur avviati da soggetti stranieri, fanno crescere le realtà locali chiedendo di diventare protagonisti del loro futuro e, dono ancor più prezioso di soldi e contributi, offrono loro un motivo per farlo.
Il grido di aiuto di questa popolazione giovane e martoriata risuona sempre più prepotente nella mia testa e nel mio cuore: da oggi ha la forma della giovanissima madre il cui sguardo incrocio in uno slum della capitale, o del giovane vescovo di Anse-à-Veau che mi racconta dell’infinito disastro prodotto da un terremoto che ha colpito la sua città. Il grido di aiuto di una nazione non può essere inascoltato. Men che meno dall’Europa che questa isola magnifica ha, lungo i secoli, diviso, depredato e infine abbandonato. In diversi mi chiedono perché l’Italia non riapra l’ambasciata ad Haiti chiusa diversi anni fa.
Io mi chiedo come possiamo tornare a camminare insieme a questo popolo, dismettendo le vesti terribili dei colonizzatori e assumendo quelle amichevoli dei compagni di viaggio. Perché, in questo mondo ormai fattosi stretto, ci possiamo salvare solo insieme: noi, ormai avanti negli anni, e i giovanissimi ragazzi che stazionano rumorosamente lungo le strade tutto il giorno senza che nessuno faccia qualcosa per loro. Solo insieme. Ci salveremo.