La Stampa, 20 ottobre 2021
La battaglia delle olive
inviato a beirut
Ottobre, è tempo di raccogliere le olive. Da inizio mese, quando nella Striscia di Gaza i frutti cominciano a maturare, e poi per tutto novembre, fino all’estremo Nord della Siria, rinomato per il suo olio leggero e aromatico, nel Levante arabo centinaia di migliaia di famiglie si mobilitano in una «battaglia economica» che si intreccia sempre più spesso con i conflitti della regione. La meccanizzazione è ancora limitata, gran parte del lavoro si svolge a mano e nelle aziende famigliari partecipano uomini, donne e bambini. Le olive vengono fatte cadere scrollando gli alberi, o bacchiandole con i fusti delle canne. Ammassate nelle reti stese sotto gli olivi, spesso centenari, sono poi selezionate, prima di essere portate nei frantoi. Pratiche ancestrali, che cementano le comunità ma sono a volte la fonte principale se non unica di sopravvivenza. Vale soprattutto per i palestinesi nei Territori. Centomila famiglie campano con la produzione di olio, conserve e sapone. Nella sola Cisgiordania, dove metà della terra coltivabile è coperta da oliveti, con dieci milioni di piante, il settore vale 190 milioni di dollari annui. Il sapone di Nablus, simile a quello più celebre di Aleppo, ricco di anti-ossidanti e delicato sulla pelle, è uno dei pilastri della città.
In Cisgiordania però la «battaglia delle olive» si trasforma tutti gli anni in scontro fisico. La terra è poca, 5600 chilometri quadrati, più o meno come la Liguria, dove vivono quasi tre milioni di palestinesi e 600 mila israeliani negli insediamenti, la maggior parte in sobborghi urbani, ma circa 50 mila in avamposti nel bel mezzo dei terreni agricoli. Gli «outpost» ebraici, la maggior parte illegali anche per Israele, cercano di ostacolare in tutti i modi la raccolta, e in alcuni casi sradicano e si portano via interi alberi. Quest’anno la stagione è cominciata nel peggiore dei modi. In due settimane sono stati registrati 58 attacchi, secondo una Ong palestinese diretta da Ghassan Daghlas. Gli incidenti si sono concentrati nel villaggio di Burin, a Sud di Nablus, con nove aggressioni, mentre l’episodio più grave è stato registrato nella cittadina di Salfit, con quattro feriti.È intervenuto anche l’esercito israeliano, per frenare gli estremisti degli insediamenti ma in alcuni casi anche per bloccare le famiglie palestinesi dirette verso gli oliveti. Molti appezzamenti di terreno sono finiti nelle cosiddette «zone militari», dove l’accesso è proibito. I contadini hanno reagito con rabbia, e uno di loro è stato malmenato. L’esercito israeliano ha aperto un’inchiesta.
Per i palestinesi però l’espansione delle zone militari è solo la premessa all’ampliamento degli insediamenti e all’esproprio di altra terra. Servono i permessi per poter lavorare in quelle zone, e ogni anno vengono ridotti. Poi ci sono gli atti di vandalismo. Soltanto nel 2020, secondo la Croce rossa internazionale, sono stati distrutti 9300 alberi, per lo più incendiati, alcuni portati via con tutte le radici. Dal 1967, secondo l’Applied Research Institute Jerusalem, i palestinesi hanno perso ben 800 mila alberi di olivo. Le piante più antiche sono quelle più pregiate, perché producono olio di migliore qualità. Vengono rivendute e trapiantate in altri terreni. Lo stesso fenomeno, ma su scala molto maggiore è in corso nel distretto di Afrin, in Siria, al confine con la Turchia. Da quando nel marzo del 2018 è stato occupato da truppe turche e miliziani arabi alleati gli oliveti, i più grandi in territorio siriano, sono stati saccheggiati senza pietà. Ong curde, come la Human Rights Organization in Afrin, denunciano l’espianto di 500 mila alberi, sui circa 18 milioni della regione. I ribelli della brigata Al-Hamzat li rivendono in Turchia e ne hanno fatto uno dei loro business principali, assieme alle estorsioni. I curdi perdono la fonte principale di sostentamento e sono costretti a lasciare la loro terra. E il cerchio si chiude. —