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 2021  ottobre 19 Martedì calendario

Le origini di Roma


Nell’ottavo libro dell’Eneide Virgilio prova a rendere coerenti varie leggende sulla fondazione di Roma. Per compiere questa operazione – scrive Gianluca De Sanctis in Roma prima di Roma. Miti e fondazioni di una città eterna, che esce dopodomani da Salerno Editrice – è costretto ad «aprirsi un varco all’interno di una giungla mitografica, tagliando, sfrondando, connettendo tradizioni e racconti diversi». Enea va a trovare Evandro, re greco che vive esule sul Palatino dove ha fondato una città (con la sua comunità di Arcadi provenienti da Argo). Evandro sta compiendo un sacrificio nel foro boario in onore di Eracle che anni prima proprio in quel luogo aveva ucciso un personaggio mitologico e terribile, Caco. Il quale Caco gli aveva rubato i buoi sottratti, nella decima «fatica», al gigante Gerione. Con l’uccisione di Caco, Eracle aveva liberato gli Arcadi e aveva donato al loro re, Evandro, la possibilità di governare pacificamente. Pacificamente e nel rispetto delle norme. In onore di Eracle il luogo dell’uccisione di Caco sarebbe stato destinato al mercato dei buoi (di qui il nome: foro boario).
Lì si teneva ogni anno una cerimonia molto importante. Ed è nel corso di questa cerimonia che Evandro racconta a Enea la storia di cosa era stata Roma prima di diventare una città dai grandi destini. Dapprincipio era stata un territorio abitato da Fauni, Ninfe e, riassume De Sanctis, da una stirpe di uomini «nata dal duro tronco degli alberi, indocile e selvaggia, priva di qualunque tecnologia». Lì erano state fondate poi altre città, alcune «Rome» prima di Roma, alla cui origine c’erano gli dèi Giano e Saturno. Saturno – giunto anche lui dall’Oriente per sottrarsi alla persecuzione di Giove che lo aveva cacciato dal suo regno precedente – aveva dato a quelle terre il nome di «Latium» in ricordo di ciò che esse avevano rappresentato per lui: «un luogo in cui nascondersi» (dal verbo latere, «nascondere»). Quella di Saturno sarebbe stata poi ricordata come l’età dell’Oro. Perché? Secondo Tibullio e Ovidio, riferisce De Sanctis, i sudditi di Saturno erano esuli che ignoravano «qualunque forma di tecnologia». E per via di questa loro ignoranza non conoscevano «i grandi mali che invece affliggeranno gli uomini delle età successive (le dispute, la violenza, le guerre)». Ci pensava la terra ad assecondare quest’armonia sociale, offrendo spontaneamente i propri frutti («il che eliminava alla radice anche la necessità di invidiare, competere, combattere per il possesso di un qualche bene»).
È un mito – come ha messo in risalto Jan Assmann in La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche (Einaudi) – «che intende sconfessare i benefici di quello che noi oggi chiamiamo progresso». Assmann definisce questa funzione «contrappresentistica». Nel senso che evoca un «prima» migliore – nel caso in questione l’età dell’Oro – da opporre all’adesso degradato e corrotto. Chi fa proprio questo genere di racconti si schiera «contro il presente». Come Giano. In principio infatti era stato Giano che aveva offerto ospitalità a Saturno giunto per mare dall’Oriente. Saturno aveva arricchito e consolidato il regno di Giano, il quale lo avrebbe associato al suo comando instaurando una vera e propria diarchia. Saturno lascia in questa leggenda un segno indelebile: per Virgilio la storia «moderna» della città comincia con Saturno «un dio straniero che prepara la strada all’avvento di Evandro ed Enea» e «dunque dei Romani». Lungo una via destinata a culminare («è quasi inutile dirlo», ironizza De Samctis) con l’opera di Augusto, il quale «riporterà indietro il tempo e restaurerà l’età di Saturno». Chiudendo così il cerchio. Sulla tradizione di Saturno, Evandro ed Enea, a Romolo toccherà il compito fondamentale di istituzionalizzare il diritto d’asilo. Il mito dell’asilo costituì per i Romani, all’alba della città, non solo «la pietra angolare sulla quale costruire la propria autorappresentazione», ma anche «il motivo ispiratore della loro condotta politica in campo internazionale».
Il dibattito sull’originaria identità romana ha – secondo De Sanctis – un grande debito nei confronti di Andrea Giardina (L’Italia romana. Storia di un’identità incompiuta, Laterza); di Maurizio Bettini (Hai sbagliato foresta. Il furore dell’identità, il Mulino); di Adriano Prosperi (Identità. L’altra faccia della storia, Laterza); e di Francesco Remotti (Contro l’identità Laterza). Tutti, chi più chi meno, colpiti dalla scarsa attenzione data dai Romani al «tema della purezza etnica così caro invece al mondo greco». Come poteva essere altrimenti per una città che aveva alle spalle i miti fondativi di grandi personaggi accolti su quella terra come profughi provenienti da lidi orientali? Va detto a questo punto che Timothy Peter Wiseman ha catalogato ben sessantuno versioni del mito di fondazione di Roma. Versioni che si riducono ad una ventina se si tiene conto del fatto che molte sono varianti di uno stesso racconto. Ma venti sono ugualmente tanti e producono quello che De Sanctis definisce un vero e proprio «calderone mitografico». A questo punto si pongono nuovi problemi.
Paul Veyne in I Greci hanno creduto ai loro miti? (il Mulino) ha posto domande fondamentali su quanto sia utile per uno studioso rifarsi a questi racconti tramandati per generazioni. Ed è giunto alle conclusioni che i miti, se ben interpretati, hanno un grande valore per gli storici. Ai miti, scrive De Sanctis, «si presta ascolto perché hanno qualcosa da insegnare, recano un “messaggio” per il presente». Del resto «è proprio la rilevanza di questo messaggio che ha permesso ai miti di attraversare le generazioni, restando vitali nonostante il trascorrere del tempo». Naturalmente i contenuti del messaggio possono essere diversi, variano da racconto a racconto. Talvolta si contraddicono l’un l’altro, «ma tutti hanno a che fare, in qualche modo, con i principi costitutivi della cultura di appartenenza». Tutti in sostanza «parlano il linguaggio della tradizione». Si può dire, così che «i miti costituiscono gli oggetti culturali su cui viaggia la tradizione». Sono una sorta di «enciclopedia tribale» per usare la formula coniata da Eric Havelock in Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone (Laterza). In questa enciclopedia «i membri della “tribù” possono ritrovare gli elementi fondamentali della propria cultura», le ragioni che «informano» una gran parte dei loro valori, le origini di alcune istituzioni, «i motivi che spiegano un certo tipo di atteggiamenti o comportamenti».
E la memoria? La memoria, sia quella individuale che quella collettiva – scrive De Sanctis rifacendosi ad una riflessione di Primo Levi in I sommersi e i salvati (Einaudi) – «non è il deposito in cui vengono archiviati i ricordi». È piuttosto «la macchina che li lavora incessantemente». Non un luogo, dunque, «ma un processo in cui gioca un ruolo fondamentale la nostra immaginazione ricostruttiva». Per essere immagazzinato «il passato deve essere assimilato e trasmesso». Tale archiviazione, però, «non è mai un’operazione neutra, priva di implicazioni emotive e ideologiche». Ciò che ricordiamo «non è un calco fedele della verità di quanto è accaduto», bensì «un prodotto del nostro modo di leggere quell’evento, di interpretarlo». Inoltre, «per quanto onesta, per quanto autentica possiamo ritenerla», la nostra interpretazione non è mai «esente dalle macchie e dalle incrostazioni del tempo». I ricordi «non sono oggetti inerti… sono dinamici, nel senso che si modificano impercettibilmente man mano che noi, come individui sociali, cresciamo, viviamo e facciamo esperienza della realtà». E lo fanno «per restare in sintonia con le nostre autorappresentazioni, le nostre idee, i nostri credi». I ricordi, secondo De Sanctis, «sono continuamente aggrediti dal nostro presente e incessantemente lavorati dalla nostra immaginazione ricostruttiva». Un discorso che vale ancor più per la «memoria collettiva». Come ha spiegato Arnaldo Momigliano, nell’impasto tra miti, ricordi e memoria collettiva, «anche gli storici romani sapevano come esercitare la loro discrezione o la loro fantasia». È chiaro allora, conclude De Sanctis, «che studiare il mito di fondazione non può in alcun modo condurci a scoprire se Romolo sia realmente esistito o se abbia fondato Roma nel modo in cui afferma la tradizione». In compenso «può aiutarci a capire le ragioni per cui i Romani hanno scelto di autorappresentarsi in questo modo e perché questa ricostruzione ha avuto la meglio sulle altre».
Ma, prima di passare dal mito alla storia basata su ritrovamenti archeologici, non si può evitare di far presente che tra la data presumibile della guerra di Troia (dalla quale sarebbe fuggito Enea), la fondazione di Cartagine (dove Enea avrebbe incontrato Didone) e l’arrivo del figlio di Anchise sul suolo laziale dovrebbero essere trascorsi all’incirca quattro secoli. Forse anche cinque. Ma, come ha messo in rilievo Alexandre Grandazzi, in La fondazione di Roma. Riflessione sulla storia (Laterza) anche in campo archeologico per anni si è dibattuto tra due diversi modelli interpretativi. Quello della Stadtgründung, secondo il quale la città sarebbe nata dalla fusione delle diverse comunità di villaggio che abitavano le alture sulla riva destra del Tevere, e quello della Stadtwerdung, secondo cui la comunità del complesso Palatino-Velia avrebbe progressivamente incluso o assoggettato le altre. Due formule (oggi del tutto superate) che possono apparire sostanzialmente simili.
La seconda, quella della Stadtwerdung, si è rivelata però più «maneggevole» perché negava l’elemento costitutivo della tradizione letteraria. Quale? Quello secondo cui la città era nata da un momento all’altro, attraverso un preciso atto fondativo, compiuto volontariamente e consapevolmente. E, negando questo elemento, sono state formulate ipotesi le più fantasiose, svincolate dalla necessità di fare i conti con un preciso momento storico identificato nel tempo, quello, appunto, della fondazione. Finché Andrea Carandini, con una serie di studi e scavi destinati a rivoluzionare la ricerca archeologica su Roma antica, ha portato alla luce i resti di una struttura muraria (risalente all’VIII secolo a.C.). Tali resti, scrive De Sanctis, avevano «tutte le carte in regola per essere identificati con il muro che, secondo la tradizione, Romolo avrebbe eretto a difesa della sua città». Era la prova che c’era stato un momento specifico in cui Roma era stata fondata. Al lavoro di Carandini – i cui termini saranno sistematizzati nel libro Remo e Romolo. Dai rioni dei Quiriti alla città dei Romani (775/750 – 700/675 a. C.), edito da Einaudi – si deve riconoscere, secondo De Sanctis, «il merito di aver rilanciato su nuove basi il dibattito sulle origini di Roma» e «di aver provato ancora una volta a far quadrare il cerchio mettendo in dialogo tradizione letteraria e documentazione archeologica». Ma negli anni – anche prima della pubblicazione di Remo e Romolo — molti interverranno a ridimensionare l’importanza di quel muro scoperto da Carandini. Tra loro De Sanctis segnala (per l’«eleganza» con cui ha espresso il proprio «cordiale dissenso») Augusto Fraschetti in Romolo il fondatore (Laterza).
E qui si è costretti a tornare alla tradizione letteraria. In fatto di miti delle origini, conclude De Sanctis, «i Romani furono degli anticonformisti». Raccontavano di una città «nata da un asilo, promiscua, che era cresciuta e divenuta grande accogliendo gli stranieri, i vinti, persino concedendo la libertà agli schiavi». Schiavi con i quali «mescolare il sangue non sarebbe stato un tabù, ma una virtù». E che cosa impedì a Roma di subire lo stesso destino di Cartagine e Corinto? Probabilmente «una straordinaria intelligenza politica che non solo ha considerato l’alterità, piuttosto che una minaccia, come una possibile risorsa». Ha però saputo anche «far convivere tradizione e innovazione, attraverso processi lenti e graduali». Processi di integrazione che «invece di risolversi in una semplice e meccanica assimilazione degli elementi allogeni», hanno spesso «dato luogo a una vera e propria ibridazione culturale». Roma «città aperta» dunque, fin dalle origini. Aperta sì, ancorché capace all’occorrenza di chiudersi per autopreservazione. Ma, fondamentalmente, aperta.