Corriere della Sera, 19 ottobre 2021
Intervista a Kabir Bedi
Kabir Bedi è in camicia a fiori a Mumbai, dove vive dopo anni fra Londra e Los Angeles. Ha capelli e barba più scuri di quelli arsi dal sole di Sandokan, per il resto, gli occhi penetranti sono gli stessi di 45 anni fa e sembra atletico come quando lottava contro le tigri, a Labuan, per conquistare Carol André, nel celebre sceneggiato tv. Oggi, Kabir esce con la sua autobiografia Mondadori, Storie che vi devo raccontare – La mia avventura umana. Non ci sono solo le 130 pellicole interpretate, incluso uno 007 e serie come Beautiful e Dynasty. Lui dice: «Ho avuto una vita straordinaria anche per fallimenti e tragedie».
Qual è il giorno che le cambia la vita?
«Quando intervistai i Beatles a New Delhi. Avevo vent’anni. Lavoravo in una radio per pagarmi il college. Fu uno scoop clamoroso, che la radio non capì: cancellarono il nastro. Fu un tale choc, che mi misi su un treno con sole 700 rupie in tasca e andai a cercare fortuna a Mumbai».
E il giorno del provino per Sandokan?
«A Mumbai diventai pubblicitario, non pensavo di fare l’attore, ma mi trovai a recitare in film e a teatro, dove interpretai Tughlaq, un re pazzo. Il sipario si alzava su di me, nudo, di spalle. Tutta la città parlava di quella scena. Quando arrivò il regista Sergio Sollima con la troupe, cercando un attore alto, atletico, tutti fecero il mio nome».
Nino Novarese, che aveva già vinto l’Oscar per i costumi di Cleopatra, raccontava che la vide e vide Sandokan.
«Ma Sollima volle continuare a cercare e mi chiese di andare a Roma a mie spese per un altro provino. Arrivato in Italia, non immaginavo facesse così freddo. Nino mi vide tremare, mi portò a comprare un cappotto e dovetti confessargli che non avevo soldi. Mi disse: “Me li restituirai perché, un giorno, sarai ricco”. La sua gentilezza ancora mi commuove. La mia vita cambiò, anche perché Bollywood richiedeva numeri di canto e ballo che non erano il mio forte: lì, non avrei avuto la stessa carriera».
Chi era il giovane uomo che diventava Sandokan?
«Il figlio di due genitori incredibili: mia madre era inglese, mio padre indiano, studiavano insieme a Oxford e li univa il desiderio di aiutare i poveri e combattere il colonialismo. Papà discendeva del fondatore della religione sikh, ma rinunciò alle sue ricchezze e andammo a vivere in capanne senza luce, senza acqua, per solidarietà alla popolazione. Mia madre finì in prigione perché guidava le manifestazioni di Gandhi. Papà è stato un filosofo, ha scritto libri, è stato un guaritore. Mia madre divenne una suora buddista del più alto grado: fu lei a insegnare l’inglese ai Lama, così che il buddismo si diffondesse nel mondo. Sono stati scritti tre libri su di lei».
Dal set, lei scrisse ai suoi: «Niente sudore, tensione, nulla da preparare. Io sono Sandokan nello spirito: libero, indomito, nobile, un leader fra gli uomini». Perché si sentiva Sandokan?
«Perché lui lottava per la libertà del suo popolo e questa era anche la storia di mio padre e mia madre che mi avevano insegnato come e perché qualcuno crede in qualcosa».
Cosa ricorda del successo?
«Atterrato a Roma, dalla scaletta dell’aereo, vidi pieno di fotografi. Mi voltai per vedere chi c’era di famoso. Non c’era nessuno. Pensai: sono diventato una star».
Le donne impazzivano per lei e tutti fantasticavano su un amore con Carol André.
«Ma io ero troppo concentrato sul ruolo e lei soffriva per la malattia che le avrebbe portato via il padre».
Hollywood come arriva?
«In Europa non mi offrivano parti: ero troppo Sandokan. In America fu difficile: se serviva un asiatico, i registi prendevano un bianco e gli scurivano la pelle. Dall’82, sono nella giuria degli Oscar e tante lotte per la diversity hanno dato i loro frutti».
La scena più rischiosa che girò è quella sul tetto del treno con lo 007 Roger Moore?
«Ho rischiato la pelle solo girando Il corsaro nero: il galeone affondò e stavo per annegare nei miei stivali».
Ci si sposa quattro volte se si crede troppo nell’amore o se non si è bravi in amore?
«Un poeta ha scritto che, se una storia non può procedere, va fermata nel punto più bello lungo la strada. Oggi, con Parveen ho l’amore sempre cercato. Ero in Italia a girare Un medico in famiglia quando le chiesi di sposarmi».
Il libro è dedicato a suo figlio Siddharth morto suicida a 25 anni. Come si fa pace con una perdita simile?
«Non lo so. Gli diagnosticarono la schizofrenia mentre si laureava alla Carnegie Mellon. Era un genio della tecnologia. Ho fatto di tutto per salvarlo. Ricordo le passeggiate a Santa Monica: stordito dai farmaci, soffriva perché non sentiva più il sapore delle cose di tutti i giorni. Il suo desiderio non era di essere genio, ma di essere normale. Noi dimentichiamo che esperienza straordinaria sia la normalità».