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 2021  ottobre 19 Martedì calendario

Intervista a Tatiana Kosheleva

 Ogni tanto succedono cose così. Una squadra piccola e neopromossa, che si allena e ha sede a Vallefoglia, sulle colline marchigiane, e gioca le sue partite a Urbino, la scorsa estate ha messo sotto contratto una leggenda del volley. Prima di firmare, Tatiana Kosheleva ha chiesto: «C’è il mare vicino?». Sì, le hanno risposto. Una delle più grandi di tutti i tempi che va alla Megabox Vallefoglia. Come se Messi avesse accettato la corte dell’Empoli, altro che Psg. Dopo aver giocato nelle squadre di immense metropoli, Mosca, Canton, Rio, Istanbul, Kosheleva ha preso casa a Montecchio, che sta tra Bottega e Osteria Nuova, non lontano da Tavullia. Dopo due giornate di campionato la schiacciatrice russa è la seconda miglior marcatrice dietro Camilla Mingardi e davanti a Paola Egonu. Vallefoglia però ha sempre perso, nonostante i grandi numeri della sua capitana. «Perché ho scelto l’Italia? Per capirvi meglio».
È un’esigenza che sentiva?
«Più che altro è il desiderio di una donna che ha girato il mondo e che si è innamorata di molti posti e di tante genti diverse. L’Italia mi mancava. O meglio, avevo giocato appena tre settimane a Scandicci, qualche anno fa. Mi ero fatta travolgere da Firenze, dalla sua bellezza. Urbino è una piccola Firenze e da qui puoi andare dovunque».
Al mare, soprattutto.
«Il clima è perfetto e io adoro fare lunghe passeggiate lungo il mare.
Qui c’è un’aria bellissima. E la gente è così simpatica».
La sua scheda dice: schiacciatrice, campionessa mondiale 2010, due ori europei, miglior giocatrice di una valanga di tornei. Nata a Minsk, nel 1988.
«Mia madre è bielorussa, mio padre è russo. Io non considero i due popoli separati, quando sono nata erano sotto l’Urss. Non ci sono grandi differenze, sono due popoli con una radice comune. I miei genitori sono laureati, entrambi lavoravano nell’esercito. Abbiamo viaggiato molto, abbiamo vissuto in Polonia, ma i primi ricordi che ho sono legati a Tula, la città di Tolstoj».
Che posto è?
«A due ore da Mosca, fredda, ma non come la Siberia dove vive la famiglia di mio marito. Ci sono grandi miniere, la gente vede poco il sole».
È là che ha iniziato a giocare?
«Sì, mi ha spinto mia madre, che era stata in realtà una discreta giocatrice di basket. Io avevo iniziato con basket e atletica, ma il volley mi ha decisamente conquistata. È un gioco che amo perdutamente».
Ha quasi due lauree.
«Sì, la prima in management, la seconda vorrei prenderla in psicologia. Ci tengo, è una spinta interiore e deriva dai molti infortuni che ho subito nella mia carriera. Studio psicologia per conoscere meglio me stessa come persona e per approfondire il rapporto tra il mio corpo e la mia psiche. Da nove anni mi faccio seguire da uno psicologo. La parte migliore e più importante della vita è conoscere se stessi. Vorrei riuscire ad aiutare altre persone e altri sportivi come me».
Legge Tolstoj?
«Tolstoj per noi russi è come Dante per voi, quando lo studiamo a scuola ci sembra difficile e noioso, quando cresciamo riusciamo a capire a fondo la sua importanza e il suo valore».
Ha un’opinione invece su Lukashenko e sulla Bielorussia di oggi?
«Lì vivono i miei nonni, i miei zii e ho altri parenti in Russia. Non voglio dire niente di male su questi due Paesi. Io conosco persone che vivono lì».
Alla vigilia di Tokyo ha detto no all’Olimpiade e dato l’addio alla nazionale, senza dare una spiegazione. Perché quel rifiuto?
«Tokyo era il mio sogno e forse anche la mia ultima chance di vincere un oro olimpico. Avevo una buona condizione, mi ero ripresa da un infortunio, ma quando è arrivato il momento ho pensato che quello non fosse il mio posto, non mi sentivo completa, ho avuto come una premonizione. Ho seguito l’istinto. Hanno cercato di farmi cambiare idea, io ho fatto il mio annuncio piangendo. È stata come la fine di un rapporto d’amore. E il Covid non c’entra niente, mi sono vaccinata. È stata una cosa solamente mentale, ma fatico anche a darle un nome».
Anche Paola Egonu ha parlato dell’enorme stress che vivete voi pallavoliste, la vostra vita frenetica, la quasi totale mancanza di tempo libero.
«Durante il lockdown a Mosca ho trascorso 3 mesi in casa e mi è sembrato incredibile. In tutta la mia carriera non avevo mai avuto più di due, tre settimane di stop dalla pallavolo.
Viviamo tra alberghi, aerei, palestra e palazzetto. Così per anni, tra poco per me saranno venti così».
Cosa pensa del campionato italiano?
«Assieme a quello turco, il migliore al mondo. Quella italiana è una scuola straordinaria».
Paola Egonu è la migliore giocatrice, in questo momento?
«Le ho visto fare cose che non avevo mai visto fare a nessuna. Mi impressionano la sua potenza e la sua eleganza».
Il posto che le ha cambiato la vita?
«Rio, vedere tanta miseria, tanta disperazione e assieme un’allegria di vivere inattesa, insospettabile».
Vi salverete, voi di Vallefoglia?
«Faremo di tutto. In Cina ho imparato una cosa: che il lavoro alla lunga paga. Con i cinesi noi russi ci intendiamo bene, sarà la comune matrice comunista.
Pagherà, perché stiamo lavorando tanto e bene».
Sa che per arrivare al vostro palazzetto, a Urbino, bisogna percorrere via Yuri Gagarin?
«Era scritto che dovessi venire qui, adesso è chiaro».