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 2021  ottobre 19 Martedì calendario

Intervista a Zerocalcare


Dopo aver visto i primi due episodi di Strappare lungo i bordi è impossibile parlare con Michele Rech in arte Zerocalcare senza immaginarlo in versione animata, l’espressione facciale amplificata, il groviglio di insicurezze, i consigli dell’Armadillo che d’ora e per sempre avrà la voce di Valerio Mastandrea. La serie è stata accolta alla Festa di Roma da risate e applausi, ma l’autore resta chiuso (compiaciuto?) nel suo terrore, «ho la psoriasi sulla faccia». I sei appuntamenti debuttano su Netflix il 17 novembre. Nei primi due si affrontano la formazione sentimentale di Zerocalcare adolscente, l’incontro con Alice, la scritta sul muro nel quartiere di Rebibbia, “Amare le femmine è da froci”, la necessità di non manifestare le proprie emozioni, restare vaghi, soprattutto – e qui entra con forza l’Armadillo – «evitare l’accollo». Alice è la ragazza con cui per mail ci si racconta tutto ma di persona si resta muti. Nell’altro episodio s’affronta l’anno scolastico, l’angoscia da aspettativa delusa della prof. Irresistibile la parentesi sulla differenza dell’uso dei bagni pubblici tra maschi e femmine.
Ambiente, linguaggio, stile, musiche, personaggi. La serie è ancora più immersiva del fumetto.
«La narrazione in generale è manipolatoria. Nel fumetto cerco di prendere il lettore per mano per suscitargli alcune emozioni. Con l’animazione succede ancor di più: da una parte è più diretta, dall’altra con le musiche e le atmosfere hai un controllo maggiore».
Perfetta la sintonia con l’Armadillo Mastandrea.
«Valerio è Armadillo da tanto tempo.
Abbiamo vissuti simili, e lui ha avuto quel ruolo nella mia vita, negli anni mi ha detto cose sagge, ciniche, crudeli. Quando l’ho sentito al doppiaggio, era esattamente come avevo immaginato la mia coscienza».
Netflix significa 190 Paesi in tutto il mondo. Questa storia è molto personale, romana nel senso non solo geografico, ma allo stesso tempo universale. Come reagiranno gli spettatori in Giappone o negli Stati Uniti?
«Con i miei coetanei non trovavo terreno comune, non amavo discoteca e calcio. Mi sono sentito accolto grazie al punk. Il pubblico giapponese, cinese, americano non coglierà le questioni romane perché quelle sono appannaggio nostro e dei nostri nonni. Però c’è un comune denominatore, il senso di inadeguatezza, il non riuscire a strappare lungo i bordi il percorso di vita immaginato da altri. Se uno ce l’ha, ce l’ha da quando è piccolo, per tutta la vita, in ogni paese e classe sociale. Se tu quella cosa ce l’hai, quel linguaggio lo capisci. Se non ce l’hai, anche se sei di Roma e sei nato nell’83 come me, con tutto questo non entrerai mai in sintonia».
Ogni episodio è denso, pieno di dettagli e battute veloci.
«Bisogna stordire la gente, così se c’è una roba che non mi piace, se è tra altre dieci ne trova un’altra che funziona. A parte questo la mia idea è che tutte queste cose si fruiscono con la possibilità di mettere in pausa, di guardarsi una cosa. Dargli lo stesso effetto del fumetto: se vuoi la prima volta lo leggi velocemente e ti godi la storia come viene, per poi tornare sulle singole pagine e guardare tutti i dettagli. Vorrei che la serie fosse fruità in questo modo».
La struttura della storia?
«C’è una trama orizzontale che riguarda un viaggio che stanno facendo i tre personaggi principali, un viaggio emotivamente impegnativo, questo si capisce negli episodi successivi. Poi ci sono una serie di piccoli episodi che hanno una narrazione verticale e segmentata, servono a raccontare il contesto della vita di queste persone».
Perchè tanta paura? Netflix non diffonde i numeri.
«Per me contano i commenti della mia tribù, ho un senso di appartenenza tribale: ai centri sociali, alla scena punk in cui sono cresciuto. Sono circondato da una comunità di talebani che mi aiutano a tenere la barra dritta, a non tradire lo spirito del mio luogo. La mia politica è quella dei centri sociali, non dei partiti, credo nella politica dal basso. Voto sempre perché mi piace fare la fila con i vecchietti, ed è un grande rito collettivo. Ma non mi sento rappresentato da nessun candidato, il mio Armadillo è entraneo alla competizione di questi giorni».
Ha fatto la serie che voleva?
«Netflix mi ha lasciato libertà totale.
Tra le corporazioni è quella più dotata di autoironia, con altre ho dovuto rompere. Le uniche volte che hanno dato consigli erano quelli giusti. Nella serie ci sono le parolacce, ma certe espressioni omofobe o razziste le metto consapevolmente in bocca a chi incarna quei valori».
Si ritiene un artista libero?
«È l’aggettivo che meno mi riguarda. Vivo schiacciato dal senso del dovere».