Il Sole 24 Ore, 19 ottobre 2021
I nuovi farmaci contro l’Alzheimer
Un altro anticorpo monoclonale per la cura della malattia di Alzheimer, il ganeterumab di Roche, diretto contro la proteina beta amiloide, ce l’ha fatta: la Food and Drug Administration gli ha concesso lo status di breakthrough therapy, cioè di terapia così promettente da meritare un iter di valutazione accelerato, di solito anticamera dell’approvazione vera e propria. La stessa decisione era stata presa, poche settimane prima, per gli altri monoclonali lecanemab di Eisai e Biogen e donanemab di Eli Lilly, tutti sospinti dalla prima approvazione in assoluto, quella dell’aducanumab di Biogen, dello scorso giugno.
Gli anticorpi in corsa condividono il meccanismo d’azione, ossia la riduzione delle placche di beta amiloide, ma anche le criticità, sia nella conduzione degli studi clinici, che non avrebbero dimostrato reali benefici per i pazienti, sia nel presupposto teorico che ha motivato le ricerche, ossia l’idea che per sconfiggere la demenza occorra concentrarsi sulle placche. Secondo una buona parte della comunità dei neurologi, infatti, anni di dati, e miliardi di investimenti tutti esclusivamente o quasi incentrati su quest’ipotesi, avrebbero paradossalmente portato a dimostrarne l’infondatezza, e lo sforzo di giungere comunque all’approvazione sarebbe motivato solo dal tentativo di recuperare il denaro investito.
Che molto resti da chiarire lo confermano le polemiche furibonde scatenate dall’aducanumab, con tanto di dimissioni di alcuni membri del panel dell’Fda, con le indagini interne della stessa agenzia per sospetta corruzione, e con la totale stroncatura giunta in ottobre, da parte di 10 su 11 membri di un altro panel, questa volta indipendente. Ma le discussioni potrebbero essere superate dai fatti: per quanto riguarda l’aducanumab, la stessa Fda ha dato nove anni di tempo a Biogen per confermare la sua terapia, che costa 56.000 dollari all’anno: se non si mostrerà efficace, sarà ritirata. Per quanto riguarda gli altri, l’agenzia attende il risultato di studi clinici che stanno coinvolgendo migliaia di pazienti, che dovrebbero giungere nel 2022.
Nel frattempo, però, c’è chi ha deciso di affrontare l’Alzheimer da punti di vista completamente diversi, che ignorano la beta amiloide. Uno dei principali è l’ipotesi virale, in studio da almeno una trentina d’anni, che si concentra sulla possibilità che il responsabile sia l’herpesvirus di tipo 1 (quello che provoca le eruzioni al volto), soprattutto nelle persone che hanno una predisposizione genetica: chi ha entrambi avrebbe un rischio 12 volte superiore di andare incontro all’Alzheimer. Osservazioni cliniche come quella contenuta in uno studio del 2018 su oltre 8.300 persone, hanno confermato che chi ha l’infezione e la cura, nei 10 anni successivi ha un rischio inferiore del 90% di sviluppare la demenza rispetto a chi non assume antivirali. Al momento è in corso uno studio specifico, con l’antivirale valacyclovir, che sarà assunto per un anno o un anno e mezzo da volontari con i primi segni di decadimento cognitivo; al termine si valuterà l’andamento dei deficit nelle diverse popolazioni. L’idea è che all’origine di tutto ci sia una riattivazione del virus che, percorrendo i nervi cranici, arriverebbe al cervello e scatenerebbe la sintesi di beta amiloide, che ha una funzione microbicida. Ma ripetute riattivazioni del virus negli anni porterebbero a un eccesso di amiloide, e quindi alle placche. E lo stesso potrebbe accadere per infezioni da funghi, o da altri virus tra i quali Sars-CoV2, osservato speciale, dopo che alcune prime indicazioni suggeriscono che possa anticipare l’esordio della demenza.
Un approccio diverso guarda invece alla firma biologica della malattia, che potrebbe essere molto utile sia dal punto di vista diagnostico, sia per l’individuazione di nuovi target terapeutici. Uno studio dell’Università di Okinawa, in Giappone, appena pubblicato su Pnas, ha analizzato con tecniche di proteomica il sangue di 8 pazienti e di 16 controlli (metà anziani e metà giovani), trovando ben 33 proteine profondamente alterate nei malati. Sette, note per essere tossiche per l’uomo, erano presenti in quantità abnormi, mentre le altre 26, conosciute per la loro azione protettiva, erano molto diminuite. Gli autori stanno già cercando conferme nei modelli animali, cioè verificando se neutralizzando le proteine tossiche o, viceversa, fornendo quelle protettive, si manifestano i sintomi della demenza oppure, rispettivamente, quella già presente si ferma, o regredisce.