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 2021  ottobre 19 Martedì calendario

Da Sartre a Heidegger: per loro il calcio è poesia

Per Sartre la vita imita il calcio, per Givone il calcio la spiega. Fra questa dicotomia, solo apparentemente tale, oscilla il libro di Alessandro Gnocchi Il capocannoniere è sempre il miglior poeta dell’anno. Perché se è vero che Sartre, nel suo razionalismo, ha ragione, è altrettanto vero, come dice Givone, che il calcio è un fertilissimo campo di metafore della vita (la principale e più nota è la guerra) che dà innumerevoli spunti di riflessione in ambito politico, sociale, sociologico, letterario. E dei rapporti fra calcio e letteratura si occupa appunto Gnocchi. Un libro godibilissimo perché Gnocchi, capo dei servizi culturali de il Giornale, rinuncia a ogni leziosità colta in favore di uno stile piano, sciolto, digeribile da tutti. In realtà Gnocchi possiede, o per meglio dire è posseduto, da una doppia anima: quella del letterato e quella del tifoso “la mattina in biblioteca, la sera a vedere la partita, la giornata perfetta”. Nel primo capitolo “Riscaldamento” ci offre una serie di curiosità ignote anche ai più appassionati calciofili. Parla di letterati, filosofi, poeti, narratori che oltre a parlare di calcio lo hanno praticato. Di Pasolini lo sapevamo tutti. Come era intuibile che Albert Camus, con quel suo bel fisico da pied-noir algerino, tanto diverso dallo stortignaccolo Sartre, fosse un buon portiere. Ma chi avrebbe mai immaginato che l’austero e solitario Heidegger, terrore di ogni studente di filosofia quando deve affrontare La questione della tecnica o le riflessioni su Nietzsche dove riesce, impresa quasi impossibile, ad andare oltre il pensiero del filosofo di Röcken, avendo imparato dallo stesso Nietzsche che “non fa onore al suo maestro chi rimane sempre allievo” e che negli ultimi anni della sua vita si era rifugiato su una montagna quasi irraggiungibile da cui aveva fatto ruzzolare, con disgusto, Sartre, che si pretendeva suo allievo, fosse stato in gioventù “un’ala sinistra mica male”? Che il pesantissimo Derrida, altro interprete, però mal riuscito, di Nietzsche, fosse stato un “valido centravanti” e che Benedetto Croce fosse in gioventù “una promessa del calcio”? Quest’ultima probabilmente è un’invenzione di Antonio Pennacchi. Ma in fondo anche questa è letteratura. Sulla letteratura.
Ma veniamo al sodo. “Saba ha scritto le cinque poesie italiane più note sul calcio: Squadra paesana, Tre momenti, Tredicesima partita, Fanciulli allo stadio e Goal. Quest’ultima descrive le reazioni delle squadre a una rete segnata. Tutto è vissuto attraverso i sentimenti dei portieri. Quello battuto è inutilmente consolato dai compagni. Quello inviolato festeggia da lontano. È una poesia sulla solitudine. Del portiere, di Saba, degli uomini in generale”. Motivo ripreso, non per il portiere ma per la squadra, da Max Pezzali in La dura legge del gol. Il mito vuole che Wittgenstein “ebbe un’illuminazione davanti a una partita di calcio a Cambridge. Anche il linguaggio era un gioco. Era nata la teoria cardine di Wittgenstein: il gioco linguistico”. Non è una fumisteria filosofica: il calcio è un linguaggio, la partita un racconto. Un racconto che si dipana in 90 minuti (oggi molto di più con le cinque insopportabili sostituzioni) e dove ogni gesto, anche il pallone calciato sfacciatamente in tribuna, ha un senso poetico. Su molte cose Gnocchi e io siamo d’accordo. Il vero calcio non è quello televisivo. Caduti i vecchi riti il calcio è l’ultimo luogo riservato al sacro. E come ogni manifestazione sacrale vuole una concentrazione assoluta. Ecco perché non si può andare a vedere una partita con una donna. Non puoi vedere una partita allo stadio, che è come una chiesa, e allo stesso tempo sbaciucchiarti. Tutto ciò che abbiamo detto finora vale per il calcio d’antan, non per quello di oggi. E credo che Gnocchi, anche se non lo dice, possa essere d’accordo. Del resto non si può essere tifosi quasi maniacali della Cremonese, cioè di una squadra minore, senza amare il calcio romantico di una volta oggi invaso da Televisione, Economia, Tecnologia.
Innanzitutto oggi sul calcio giocato prevale il calcio raccontato e con un’enfasi sconosciuta fino a non molto tempo fa. Bruno Pizzul è stato il telecronista della Nazionale dal 1986 al 2002. Riusciva a rendere il patos della partita, tenendo ovviamente per la nostra Nazionale, ma senza lo sbraco dei telecronisti d’oggi. Ogni goal, parata sono straordinari, meravigliosi, unici (contraddizioni in termini), invece son cose che, salvo rare eccezioni, abbiamo visto mille volte. Insopportabile è poi il Var. Tu fai un goal e non puoi nemmeno esultare, devi aspettare cinque minuti. Decide il Var. L’arbitro è ridotto a un passacarte, un impiegato della tecnologia. Non è un più il dio in campo (“Rigore è quando arbitro fischia”, Boškov). Il calcio, proprio perché appartiene al sacro, è tradizione. E qui Gnocchi introduce Leopardi, secondo cui il poeta deve conoscere a fondo i cardini di quello che, usando un termine molto riduttivo, potremmo definire il suo mestiere, ma deve anche saperli superare e andare oltre (Calci di rigore: la libertà del calcio). È il pensiero anche di Carmelo Bene. Ma oggi in circolazione non ci sono né Bene né tantomeno Leopardi. Io sto quindi con gli ultras, gli infamati ultras che qualche anno fa, in rappresentanza di 72 società, organizzarono in una giornata di giugno, canicolare e patibolare, una civile e composta manifestazione davanti al grattacielo della Figc di Milano al grido di: “Ridateci il calcio di una volta”.