Linkiesta, 19 ottobre 2021
La tragedia di Linda Evangelista, non più instagrammabile
Le camerette delle liceali degli anni Ottanta avevano muri che erano bacheche social. Appiccicati c’erano quelli che ci facevano sangue e quelle che ci ispiravano, proprio come ora (ormoni e ambizioni restano immutabili attraverso le epoche). Sulla mia c’era anche la pagina strappata da una rivista patinata. La pubblicità d’un profumo.
Linda Evangelista non era la mia preferita, dell’infornata irripetibile e pazzeschissima delle modelle di quegli anni. Ce n’erano di oggettivamente più belle, da Helena Christensen a Christy Turlington. Ma, in quella improbabile pubblicità in cui era accovacciata su una spiaggia e in braccio aveva una bottiglia di profumo grande come una delle damigiane che il contadino tentava di ammollarti quando andavi in campagna, al grido «Lo facciamo noi, è genuino», e tu sapevi che avresti avuto mal di testa per giorni; in quella foto che non aveva risolto il più irrisolvibile dei problemi pubblicitari, cioè come fai venir voglia d’un profumo, in quella foto lì, dicevo prima di perdermi nei soliti diciassette incisi, Linda aveva i capelli corti e ricci.
Se all’ultimo anno di liceo, dopo essermi rapata a zero per emulare Sinéad O’Connor, non mi sono buttata dalla finestra rendendomi conto che mi toccava almeno un anno d’impresentabili capelli corti e ricci, è stato merito di Linda, e di quella ridicola pubblicità.
Linda Evangelista la conosceva anche chi non la conosceva. Perché aveva il piglio di chi ha i lineamenti meno regolari delle altre, e ha dovuto convincersi con la tigna d’essere la più bella della classe. In quello che è forse il più famoso finale di sfilata della storia della moda, l’autunno-inverno 91-92 di Gianni Versace, con George Michael che canta (adesso sono tutti morti, e io ho la sciatica), oltre a Linda e Christy ci sono Naomi Campbell e Cindy Crawford. Era un finale di sfilata derivativo: Freedom ’90, la canzone di George Michael, era uscita l’anno prima, e nel video c’erano quelle quattro più Tatjana Patitz. Quel video aveva compiuto l’impresa d’essere, in tempo reale, quel che sarebbe stato nella retromania dei decenni successivi: i sei minuti che congelavano il nostro immaginario e il mondo patinato di fine Novecento.
Non credo ci siano studi al riguardo, ma ho l’impressione che quello fosse un periodo di fondata arroganza, nel mondo di chi decideva cosa ci sarebbe piaciuto da lì in poi. Più di quanto la moda lo sia di solito, intendo (se devi decidere come tutte quante si vestiranno nei prossimi anni, mica puoi essere umile). Era un periodo in cui non facevi una cosa la più bella possibile e poi speravi funzionasse, come è sempre stato prima e dopo di allora. Era un periodo in cui alcuni si mettevano lì e dicevano: adesso vi rovino la gara per i prossimi trent’anni. Cosa che, per inciso, gli riusciva il più delle volte perfettamente.
E quindi George Michael vede – dice la leggenda – le foto che Peter Lindbergh ha fatto alle cinque, quelle in camicia bianca per strada a Soho, e decide che è quel che vuole. Chiama, a dirigerlo, un emergente che allora dirigeva video musicali e adesso forse avete sentito nominare per qualche film, un tal David Fincher. Dice sempre la leggenda che Linda è quella che non ne ha voglia, ma che devo fare con ’sto video, sono Linda Evangelista, la mia frase più famosa è «per meno di diecimila dollari al giorno non mi alzo dal letto», mica avrò bisogno di visibilità.
Avranno pure dovuto insistere, perché a quel punto era già una star. Però, nel video, Linda non ha la fighezza di chi è cresciuta da figa delle altre. Non si accarezza narcisa le clavicole come Cindy, non si avvolge finto pudica in un lenzuolo come Christy. Linda ha ancora i capelli corti, ma non più neri e ricci come nella pubblicità del profumo: sono stirati e platino, un ciuffo particolarmente finto (certo che copierò anche quello, che domande). E ha un dolce vita nero nel cui collo nasconde la faccia, le cui maniche tira giù sui polsi come una liceale insicura. Forse lo fa per farci immedesimare. Fatto sta che è lei a fare il playback dei versi «Sa il cielo che ero solo un ragazzino che non sapeva cosa voleva diventare, ero l’orgoglio e la gioia d’ogni scolara affamata, e mi bastava: vincere la gara, avere la faccia più carina, vestiti nuovi e un appartamento costoso». Era Linda, delle cinque, quella alla quale potevamo credere se diceva che lei non sapeva fin da piccola che sarebbe stata la bella del ballo.
L’uscita conclusiva della sfilata l’avrete vista un milione di volte in questi trent’anni. Le quattro hanno vestiti corti e svolazzanti, pornoscolare molto prima di Britney Spears, e Linda è quella cui la palette assegna più carattere: è in rosso. È quella che sfila come dicesse al tizio che non l’ha voluta al liceo: sei pentito, eh?
Trent’anni dopo, a fine settembre del 2021, Linda scrive su Instagram che i suoi avvocati stanno facendo causa all’azienda che produce il macchinario che cinque anni fa l’ha sfigurata. Dovevano ucciderle le cellule adipose congelandogliele, gliele hanno moltiplicate. Sotto il suo post c’è la solidarietà sgrammaticata e assoluta di tutto il mondo della moda: cosa ti hanno fatto, amica mia, fagliela pagare (sintesi mia).
Noi mortali non capiamo. Sono molto più di cinque anni che girano foto di Linda grassa, in maniera piuttosto uniforme: sembra più una di noi cui piacciono i bucatini, che la vittima d’un trattamento estetico localizzato.
Lo scorso weekend il New York Times pubblica una riflessione piena di banalità sulla bellezza femminile e la sua schiavitù (come se Alain Delon o Robert Redford avessero fatto carriera per le loro doti interiori). Riferiscono quella che pare essere la versione dei fatti di Linda: non solo il macchinario le ha provocato l’effetto imprevisto di formare nuovi blocchi di grasso inamovibili anche chirurgicamente (ma com’è possibile?), ma questi blocchi sono parallelepipedi: hanno cioè la forma dello strumento che avrebbe dovuto renderla di nuovo la venticinquenne che tenevamo sui muri delle camerette.
Sembra una versione dei fatti abbastanza fantascientifica, ma tutte si precipitano a solidarizzare. Giacché neanche le corna l’umanità teme quanto il grasso, su nessuna disgrazia proietta l’orrore del «mioddio se succedesse a me» come sull’ingrassare. Nessun destino sembra più atroce di quello della bella che può partecipare al commercio del sé solo instagrammando foto antiche, giacché le forme nuove sono troppo impresentabili per cavarsela coi filtri e l’angolazione.
La più gran fortuna che sia capitata a Brigitte Bardot è stata invecchiare e sfasciarsi quando non esisteva Instagram, e quando la dolenza non doveva essere condivisa. Non sapremo mai se le sia importato o no, non sentiremo mai il dovere civile di mettere i cuoricini al lutto del suo perduto girovita.
Un paio di settimane fa India Knight, sul Sunday Times, notava che i commenti al primo post, quello in cui Linda annunciava che l’avevano sfigurata, era chiusa in casa a vergognarsi da anni, e ora avrebbe fatto causa, sembravano le cose che dici quando una muore. Ma lei non è mica morta, protestava. Ingenuamente. C’è differenza, nel secolo che hanno fondato loro in quegli anni, tra essere morta e non essere instagrammabile?