Specchio, 17 ottobre 2021
Ritratto di Sean Penn
Qualche anno fa Paolo Sorrentino mi invitò a fare un cameo nel suo film This Must Be the Place. Sono un sincero ammiratore del suo cinema e accettai con gioia, eccitato all’idea che in quella scena comparisse il protagonista del film, Sean Penn. Per una coincidenza fortuita le riprese avvennero il giorno prima del mio compleanno, così invitai entrambi alla festa: Penn accettò, e venne accompagnato dalla figlia. Nel momento in cui entrò nel nostro appartamento mi resi conto di cosa fosse il carisma: l’attenzione di tutti gli invitati si spostò immediatamente su di lui, e quel magnetismo non era dovuto solo alla sua popolarità. È un uomo piccolo e muscoloso, Penn, che emana un’enorme energia, che sembra assumere perennemente il tono della rabbia e della ribellione, alternati a momenti inaspettati di ironia e dolcezza.
È nato 61 anni fa a Santa Monica, in California, da Leo, un regista di qualità che venne messo nella lista nera all’epoca del maccartismo e da allora riuscì a lavorare solo in televisione: è stato lui a dirigerlo al suo debutto in un episodio di Little House on the Prairie, e ad avergli insegnato a combattere per un ideale, anche se questo significa esporsi a grandi rischi. L’intera famiglia ha dedicato la propria vita allo spettacolo: la madre Eileen Ryan era un’attrice, come il fratello Chris, morto nel 2006 a soli quaranta anni, mentre l’altro fratello Michael è un musicista. Per tutta l’adolescenza ha frequentato due ragazzi che sarebbero diventati a loro volta attori: Charlie Sheen ed Emilio Estevez, ma deve alla passione per Robert De Niro se ha deciso di dedicare la propria vita alla recitazione.
Dopo essersi fatto notare in Taps, interpretò Fast Times at Ridgemont High, un film di culto per gli adolescenti americani: il ruolo del surfista perennemente annebbiato dalle droghe è un punto di riferimento costante per gli appassionati di cinema, ma i ruoli che ne hanno consacrato la grandezza sono quelli dell’avvocato corrotto in Carlito’s Way, di Brian De Palma, e del condannato a morte in Dead Man Walking. Dopo aver lavorato con Woody Allen in Accordi e Disaccordi, e aver vinto due volte il premio come migliore attore a Venezia e una volta a Berlino, ottenne la consacrazione agli Oscar, vincendo anche qui due volte, con Mystic River, diretto da Clint Eastwood, e poi Milk, con la regia di Gus van Sant.
Rivedendo in sequenza tutte queste interpretazioni, risulta evidente immediatamente la straordinaria versatilità con cui ha immortalato ruoli diversissimi, andando spesso in direzione opposta a quello che suggerisce la sua immagine rabbiosa e ribelle. Sin dall’inizio della carriera, ha voluto seguire le orme del padre anche nella regia: i risultati sono diseguali, ma in alcune occasioni ottimi, come Into the Wild. E come il padre non ha mai amato Hollywood: «Gli studios sono come delle banche che ti fanno un prestito ma sono interessati solo ad avere i soldi indietro con gli interessi», spiega, e forse anche per questo si è cimentato nella narrativa, pubblicando nel 2018 il romanzo Bob Honey, Who Just Do Stuff. All’epoca dichiarò di «non avere più interesse nel cinema» e che «essere uno scrittore avrebbe dominato le sue energie creative per i prossimi anni». Tiene enormemente alla sua privacy, e una volta venne condannato a due mesi di carcere per aver aggredito un fotografo che tentava di immortalarlo senza permesso.
Le sue relazioni sentimentali sono state sempre pubblicizzate: Elizabeth McGovern, Susan Sarandon, Madonna, che sposò e che lo accusò di violenza fisica, salvo poi ritrattare l’imputazione. E poi Charlize Theron e Robin Wright, che divenne la seconda moglie, e Leila George, la terza. Non è fiero di come si sia comportato con Madonna, e racconta: «All’epoca lei stava diventando la più grande star del mondo, io invece volevo solo fare i miei film e nascondermi. Ero un giovane pieno di rabbia, avevo molti demoni e non so chi avrebbe potuto vivere con me. Mi sono comportato male, come anche lei: non posso puntare il dito per accusarla».
Non si potrebbe però comprendere il personaggio se si ignorasse il suo impegno civile: è ammirevole quanto ha fatto per le persone colpite dall’uragano Katrina e come si sia prodigato per aiutare gli abitanti dell’isola di Haiti, ma le sue prese di posizione politiche sono spesso contraddittorie e a dir poco discutibili. Ha appoggiato Ralph Nader nell’elezione in cui Al Gore perse con Bush per una manciata di voti andati proprio a Nader. È stato quindi un fiero avversario del presidente eletto, che definì un «osceno criminale», come anche di Trump, ma poi ha appoggiato Raul Castro e Hugo Chavez, il quale, in un discorso televisivo, lesse una lunga lettera che gli aveva mandato l’attore. Quando sostenne pubblicamente che le Falkland avrebbero dovute essere restituite all’Argentina, il Guardian suggerì che contestualmente la sua villa di Malibù avrebbe dovuta essere restituita al Messico. Fortunatamente ha il dono dell’autoironia, e si definisce un «limousine liberal», non avendo tuttavia paura di prendere posizioni controcorrente, difendendo ad esempio Woody Allen o Charlie Rose.
Forse il momento più imbarazzante avvenne quando intervistò il narcotrafficante El Chapo poco prima del suo arresto: un gesto alquanto immotivato che apparve a tutti come un’inutile provocazione. Lui si limitò a definirsi anarchico: «Sono cresciuto in un paese basato su una religione opprimente, con un governo corrotto e un’intera popolazione che vive in una terra rubata per la quale ha ucciso i legittimi proprietari, e tutto ciò è passato da generazione a generazione». Prima di salutarmi alla fine della festa mi disse che «la rabbia è un problema, ma ha anche un grande potenziale: basta sapere come gestirla», poi mi chiese di presentargli E. L. Doctorow, che era tra i miei ospiti. Lo ringraziò molto per una frase che per lui rappresentava un riferimento costante: «La responsabilità di un artista è essere consapevole del tempo in cui vive».