La Stampa, 18 ottobre 2021
Intervista a Roberto Saviano
Ciao uagliò!».
Ti saluta come Pino Daniele iniziava i concerti.
Ciao Roberto, come stai?
«Triste. Insigne ha appena sbagliato un rigore. Ma come c... è possibile?».
Roberto Saviano al Salone del Libro di Torino. Come Gassman al Sistina. Come Federer a Wimbledon. Come Vasco Rossi a San Siro. Entusiasta. «E chi se l’aspettava, un Salone del Libro così pieno? Non solo si riparte, si torna a uscire, ma si esce così tanto per i libri. A me sembra una cosa unica. Questa è una forma di resistenza. Una resistenza alla velocità, al clima teso che si respira in Italia».
I duecento ragazzi accampati per terra in attesa del firmacopie. La sala traboccante di lettori di ogni tipo: giovani e vecchi, calabresi e trentini, professori democratici e impettiti avvocati, griffati e no logo. La standing ovation. Gli abbracci. I mille saluti unendo i pugni. I sorrisi che nemmeno la mascherina ffp2 riesce a nascondere. La mano sul cuore. La penna che non ha più inchiostro. L’ora e mezza di autografi, selfie e persino una videochiamata quando una signora gli porge il telefono «perché c’è in linea mio marito Alessandro che non è potuto venire».
Presenta il nuovo libro Sono ancora vivo, una liberatoria graphic novel scritta con il disegnatore israeliano Asaf Hanuka, in cui racconta quindici anni di vita-non vita sotto scorta per le minacce della camorra. Fino all’illustrazione finale di una partita a Subbuteo con il fratello.
«È il racconto di una resistenza portata avanti con la sola artiglieria della parola e attraverso il perimetro del proprio corpo, comprendendo che, da qualsiasi lotta, si impara una sola regola: non è vero che dalla battaglia tornerai vivo o non tornerai affatto. Si può tornare feriti. La maggior parte dei soldati tornano dal fronte feriti».
Saviano oggi è appunto ferito. Non pentito. Impossibile esserlo, perché gran parte di quello che gli è successo dopo la pubblicazione di Gomorra, il bestseller che fece conoscere al mondo la ferocia imprenditoriale del clan dei casalesi, in fondo prescinde dalla sua volontà.
«In questo libro si racconta la mia ferita. Ma il messaggio è che la parola quando decide di andare per la sua strada non ha limiti».
Anche, soprattutto, se la parola è scritta con la matita.
«Sono molto grato al talento di Asaf, alla sua capacità di raccontare con il disegno. Queste cose non avrei trovato altro modo per dirle».
Eppure la camorra è diventata blockbuster, perfino fiction, proprio grazie a lui. Ma parlare di sé è diverso.
«È come spogliarsi in pubblico. Un corpo nudo non dovrebbe scandalizzare, ma genera imbarazzo. Raccontare i tentativi di esecuzione della camorra contro di me è imbarazzante. Non riesco con le parole, ma con il disegno sì. Perché il disegno è emotivo, non necessita di prova. Ne avevo bisogno per poter dire: ecco la mia verità».
Verità di solitudine, di non riconoscibilità, di ingiustizia, di dolore, di privazione di felicità. «La felicità è come la mozzarella di bufala: o la mangi subito o fa schifo. Quel tipo di felicità di cui parlo va assaporata all’istante». Anche fuggendo dal «calco della realtà in cui ero sprofondato», con allegorie date dal disegno «talmente evocative che riescono a raccontarmi senza il peso del dettaglio, dell’informazione».
Saviano si vergogna, «irrazionalmente», di essere ancora vivo. La profezia di morte non si è avverata. E certo lo infastidiscono frasi allusive tipo «se avessero voluto ammazzarlo davvero...».
Non è così. «Essere vivo è una vittoria. Non decidono i camorristi con un potere assoluto, per cui dovrei ringraziarli per non avermi ucciso. Invece no, siamo noi che glielo abbiamo impedito».
Ora c’è una sentenza giudiziaria a certificarlo. Emessa poco prima dell’uscita del libro, ha condannato i boss per le minacce. Sentenza e libro. La parola dattiloscritta e l’immagine colorata. «Un campo magnetico di emotività». Più di un’autobiografia.
È un combinato disposto che rende (o almeno ci fa apparire) Saviano diverso. Più libero, anche se sempre blindato. Ottimista, vincitore. «Quando si diventa vettori non di polemica, che ti posiziona identificando un nemico, ma di conoscenza, si fa un passo avanti nella trasformazione della società».
Disumanizzato dal mito, stereotipato dall’iconizzazione e dalla demonizzazione, Saviano torna Roberto grazie al disegno, il linguaggio più modernamente infantile. In copertina è immerso nelle lacrime, fin sotto gli occhi. Eppure nella vita non piange mai. «E non perché sono forte, ma perché se inizio non smetto più. Piangere è un talento, oltre che liberarti racconta di te. Gli eroi antichi, Ettore e Achille, piangono, altrimenti non sarebbero stati riconosciuti come tali. Ci sarà un momento in cui anch’io potrò piangere».
S’è fatta sera, gli stand svuotati mentre il firmacopie prosegue. Roberto parla con tutti. «Ma noi non ci siamo già visti? E tu che cosa fai nella vita? Ti trovi bene a Zurigo? Che ci fai a Torino? Che ne pensi di questo Salone?».
Arriva una famiglia. «Lei è nostra figlia. Ha parlato di te a scuola e la prof l’ha redarguita: “Saviano è comunista”. Ha cambiato scuola».
Intanto il libro è esaurito allo stand dell’editore. C’è chi si presenta con una copia ingiallita di Gomorra, la lama rosa in copertina, chi con un libro qualunque: «Non ho trovato il tuo, ho preso questo per il titolo: Speranza».
Chi si fa firmare la Costituzione, chi una maglietta, chi un libro di Daphne Caruana Galizia, la giornalista maltese uccisa quattro anni fa.
«Roberto non mollare, resisti».
«Ci provo». —