La Lettura, 17 ottobre 2021
Intervista a Richard Powers - su "Smarrimento" (La nave di Teseo)
Richard Powers è arrivato al grande pubblico italiano con il successo del Sussurro del mondo e la seguente traduzione di vari altri suoi romanzi da parte de La nave di Teseo; torna adesso in libreria, in contemporanea con l’uscita americana, con un nuovo romanzo, Smarrimento, sempre nella traduzione Licia Vighi.
Al centro della vicenda, un padre vedovo, Theo Byrne, di professione astrobiologo, alle prese con l’educazione del figlio Robin, di nove anni, affetto da gravi problemi comportamentali e terrorizzato dal fosco futuro del nostro pianeta.
Richard Powers, dopo l’uscita del «Sussurro del mondo» aveva detto che non avrebbe scritto altri romanzi. Come mai ci ha ripensato?
«Gli scrittori fanno spesso questa cosa, no? Il sussurro del mondo conta cinquecento pagine, ha nove diverse linee narrative, svariati stili... Quando finisci di scrivere una cosa così impegnativa, ti senti talmente esausto che puoi addirittura pensare che sia l’ultima. Per di più io avevo cominciato quel romanzo a 56 anni e l’ho finito a 61. Quando l’ho chiuso mi sono sentito felice, ma anche provato, e ho pensato: ok, forse hai detto tutto ciò che dovevi dire. Poi, quando la stanchezza comincia a passare, ti ricordi che, dopo una vita di scrittura, la scrittura sei tu. Una volta terminato Il sussurro del mondo ho passato molti giorni a camminare da solo, nel bosco, e quando a un certo punto una nuova storia ha cominciato a fare capolino, ho finito per assecondarla, visto che scrivere è il mio modo per esplorare il mondo e tentare di capirlo».
Leggendo «Smarrimento» pare di essere di fronte a un romanzo filosofico, in cui il dialogo tra i personaggi è, in ultimo, un dispositivo per innescare determinate riflessioni. Viene in mente, ad esempio, la «Montagna incantata» di Thomas Mann.
«Penso che tutti i miei 13 romanzi si qualifichino come romanzi filosofici o romanzi di idee. Sono stato molto influenzato dalla Montagna incantata di Mann quando ero giovane, e questa influenza continua tuttora, assieme a quella del migliore modernismo europeo, come quello di Marcel Proust. Ho sempre amato quest’idea di mischiare processi cognitivi e intellettuali, ricordo e pensiero, con quelli, più dinamici, dell’emotività e dell’azione. Fare pensare con urgenza, con forza, i personaggi, mentre agiscono: ecco qualcosa che mi è sempre sembrato significativo. Vale la pena dire che fino a pochi anni fa, negli Stati Uniti, il romanzo filosofico era considerato fuori moda; del resto gli americani hanno sempre preferito i romanzi alla Henry James, in cui i personaggi hanno emozioni, magari fortissime, ma non idee. Così, per quasi quarant’anni di scrittura, sono stato un outsider proprio a causa di questa mia preferenza, ed è molto interessante oggi vedere il pubblico riscoprire il romanzo filosofico con tanto entusiasmo».
In effetti lei è esploso tardi. Anche in patria è diventato davvero celebre solo dopo il Pulitzer.
«A conti fatti sono felice, anzi grato, che le cose siano andate così. Quando vedo scrittori che hanno un immenso successo con il primo o il secondo libro, mi scatta un istinto protettivo, ho quasi paura per loro, specialmente in questi tempi in cui i social network amplificano tutto e, soprattutto, rendono possibile vedere simili esplosioni di attenzione. Se avessi avuto il successo che ho avuto a 62 anni quando ne avevo 22, o anche 32, credo che non avrei mai avuto la concentrazione, la motivazione e l’equanimità per continuare a sviluppare il mio discorso nel modo in cui l’ho sviluppato. Non si può sapere cosa sarebbe accaduto, ma sono convinto che se avessi dovuto giustificare un successo precoce sarei stato costretto ad avere una maggiore autoconsapevolezza, che a sua volta avrebbe condizionato il mio approccio alla materia narrativa. E poi, come sa chi legge i miei romanzi, mi piacciono le storie in cui il climax arriva tardi, quindi sono contento che sia andata così».
«Smarrimento» è un romanzo che impone attenzione rispetto allo stato del mondo. Potrebbe essere considerato anche un romanzo politico, quindi?
«Smarrimento è un romanzo politico, anche se a prima vista non lo sembra. La mia intenzione era sedurre il lettore con una vicenda fortemente carica dal punto di vista emotivo, con un padre rimasto solo che si preoccupa per l’educazione di un bambino, ma una volta che il lettore entra, ecco che inizia a vedere, attraverso gli occhi dei personaggi, anche il mondo esterno nei suoi tumulti sociali e politici, e nella sua crisi ecologica. Il mondo che disegno in Smarrimento è familiare, ci sono personaggi che possono ricordare questo o quel protagonista dello scenario politico reale, ma ci sono anche divergenze: è una quasi-Terra che intende straniare il lettore ma allo stesso tempo farlo pensare a dove potremmo essere, o dove potremmo finire se non ci muoviamo con cautela. Questo non significa, però, che non sia anche la storia di un padre e di un figlio. L’idea di avere un genitore single che deve crescere un bambino con problemi abbastanza gravi era intrigante di per sé, perché mi permetteva di esplorare il senso generale di trauma che i bambini stanno sentendo in questi anni, assieme alla prospettiva di un uomo colto e intelligente, che tuttavia non sa che risposte dare all’ansia di quel bimbo. Il senso di panico che Robin prova nel comprendere cosa gli adulti stanno facendo alla Terra non è solo questione di neurodivergenza: è un fenomeno ricorrente in tutti i bambini quando prendono atto della rapidità con cui il “mondo vivente” sta scomparendo. Nel caso, poi, di un bambino rimasto senza madre, e quindi senza un centro di gravità emozionale, come Robin, il trauma non trova una risposta emotiva immediata, e la disperazione può diventare immensa. Dall’altro lato, lo “scienziato maschio intellettuale”, che normalmente avrebbe una postura di grande distanza rispetto a ogni cosa, si ritrova forzato a scendere sul piano emotivo: è suo figlio a chiamarlo».
Non può nascondersi...
«No. Così, lo stato di panico di Robin
diventa un modo per portare il lettore a identificarsi con entrambi i personaggi, e chiedersi, con loro: “Che cosa stiamo facendo? Che cosa non stiamo facendo?”. È importante che i personaggi siano due maschi “smarriti”, lui senza moglie, l’altro senza madre. Entrambi sono privati da quella risposta facile che è, sempre, la protezione emotiva, e spero che questo accada anche al lettore; egli deve chiedersi: “Siamo in mezzo a una estinzione di massa? Siamo davvero sull’orlo di una catastrofe globale? Che mondo stiamo lasciando ai nostri figli?”».
Si sente sempre più gente dire che non se la sente di fare figli in un pianeta in queste condizioni.
«È normale. Chiunque faccia attenzione, è traumatizzato. I giovanissimi hanno poche speranze nel futuro. Sanno, quantomeno, di andare in un mondo che andrà peggiorando. Un numero crescente di ragazzini dichiara di avere un’“estrema ansia” rispetto al futuro. E anche i giovani in età da famiglia ne hanno paura: molti credono che tirare su bambini sia un gesto irresponsabile, in un emblematico ribaltamento del discorso. Ecco, allora, che il fato del mondo diventa una grande questione generazionale».
Noi adulti abbiamo smesso di accorgerci delle cose e i bambini si ritrovano, loro malgrado, ad avvertirci. La sua letteratura punta anche a questo?
«Diciamo che lo spero. Quella umana, oggi, è una cultura alienata dal resto del mondo, da qualunque cosa non sia un nostro costrutto. La cultura consumista, che nasce da quella dell’“eccezionalismo umano”, dall’idea fallace secondo cui saremmo gli unici esseri viventi dotati di intenti, obiettivi, vera coscienza e reale significato, è una cultura patologica. La letteratura che provo a fare cerca di segnalare che esistono altre forme di pensiero, di consapevolezza. Cerca di gridare che possiamo uscire da questa malattia neoliberista che ci sta togliendo l’habitat da sotto i piedi e passare a una che prenda atto dell’interdipendenza tra tutti gli esseri viventi. Non sono “gli umani” a distruggere il pianeta: è la cultura occidentale dominante che lo sta facendo. Fuori di essa esistono moltissime culture che hanno saputo vivere in armonia con la natura, in un salutare rapporto di interscambio. Ecco, mi piacerebbe che i miei fossero visti come romanzi che provano a mutare la coscienza del lettore rispetto allo scopo della razza umana su questa terra».
Il suo libro precedente cercava di indurci a provare empatia per gli alberi, e ci riusciva. Vengono in mente gli hippie che li abbracciavano, invocando un approccio olistico alla realtà: avevano ragione loro? Non trova paradossale che uno scrittore come lei, che ha messo
Figlia della pandemia, Ita ha un anno di età, ma già scorrazza liberamente per le strade di Barcellona. Installata con la tecnica del pasteup dall’illustratrice irlandese Amy — in arte Tiny Hands Big Heart — Ita combina allegria e un tocco di femminilità: riesce così non solo a strappare sorrisi, ma anche a intervenire con ironia su questioni attuali. Il prossimo passo? Volare (anche se non ha nulla a che fare con gli aerei) per apparire in altre città.
sempre la scienza al centro delle sue narrazioni, possa essere oggi associato a visioni del mondo misticheggianti?
«Sono consapevole del fatto che, sotto una certa prospettiva, i miei libri potrebbero essere definiti misticheggianti o spiritualisti. Indagare le possibilità dello spirito umano in un mondo vivo e dotato di un suo preciso intento può suonare come un pensiero da fricchettone sotto psichedelici, e magari lo è, ma è anche un’idea che, oggi, getta le proprie radici in recenti e indiscutibili scoperte scientifiche. Tutto il principio di interdipendenza al centro del Sussurro del mondo, ad esempio, è basato, in modo teoreticamente solido, sugli ultimi quarant’anni di studi sulle foreste: oggi si scopre che l’interazione è la vera forza dominante nei sistemi naturali, molto più della competizione, che per molto tempo è stata ritenuta centrale, anche a causa di letture superficiali delle teorie darwiniane. Allo stesso modo Smarrimento, quando parla di vita extraterrestre, ha elementi che sconfinano nella mistica, ma a pensarci bene mi piace l’idea di rompere il confine netto tra scienza e spiritualità, del resto i vecchi paradigmi scientifici hanno favorito una visione sovra-razionalizzante che è, di fatto, organica all’idea dell’“eccezionalismo umano”. Adesso sappiamo che, semplicemente, molte cose sono ancora da esplorare e che il punto di vista può cambiare a seconda della scienza che poniamo come punto di partenza: è forse fuorviante, nonostante tutte le scoperte che ci ha portato tale disciplina, credere che il mondo umano “assomigli alla fisica”: in realtà assomiglia ancora molto più alla biologia».
L’astrobiologia è al centro di «Smarrimento», con il padre Theo che studia, e discute con il figlio, la possibilità della vita su altri pianeti. Non trova che una parte dell’ansia che ci coglie nel vedere degradare il nostro habitat derivi anche dalla presa di coscienza del fatto che, se anche ci fossero pianeti abitabili fuori dal sistema solare, la nostra tecnologia non ci permetterebbe di raggiungerli?
«Mi chiedo spesso che cosa significhi la fine della cultura dell’esplorazione. Perché è la nostra cultura, o almeno la cultura che abbiamo ereditato: l’umanità è andata, sempre, di frontiera in frontiera, e adesso ha raggiunto un punto in cui non può andare oltre, se non in pianeti in cui sappiamo già non esserci vita intelligente. Credo però che l’esobiologia abbia un potenziale anche a queste condizioni, perché può influenzare le nostre capacità intellettuali e affettive, e la nostra riflessione su chi siamo e perché siamo qui. I paradigmi religiosi tradizionali erano confortanti nel loro dire che l’uomo è unico, e per di più a immagine e somiglianza di Dio».
Ma quest’idea è perniciosa...
«Sì, è perniciosa perché sottende la possibilità di trattare piante e animali come vogliamo. Alla luce di ciò, credo che riflettere sulla vita nell’universo, e investire risorse in tali studi, abbia molto senso, quali che siano i risultati. Possibilità uno: scopriamo che non c’è vita da nessuna parte. La vita è un’evenienza bizzarra ed esiste solo qui. Ne consegue che questo pianeta è una rarità straordinaria e non possiamo rovinarlo, anzi ne siamo custodi. Altra possibilità: domani, o l’anno prossimo, o quando sarà attivo il telescopio orbitante James Webb, scopriamo che ci sono migliaia di pianeti pullulanti di vita. Significherebbe che la vita è qualcosa che l’universo vuole e quindi sarà inevitabile renderci conto che siamo parte di un discorso, forse un progetto, più ampio. Anche in quel caso dovremmo cambiare il nostro approccio rispetto al nostro habitat. La fine della possibilità di esplorare è un trauma, che costringe a un cambiamento la stessa cultura della nostra specie: tocca a noi rispondere con nuovi approcci, e credo che le storie, se hanno sufficiente respiro, possano aiutarci a farlo».