Il Sole 24 Ore, 17 ottobre 2021
Gli uomini che fecero il Corriere della Sera
Che cos’è un giornale? E come si racconta la sua storia? Gli studiosi se lo sono chiesti spesso, ma la domanda diventa specialmente rilevante quanto il quotidiano in questione è il «Corriere della Sera». Nel 1976, anno del centenario, uscirono ben due libri per celebrare la cifra tonda. Il primo, affidato a uno dei più apprezzati storici britannici del tempo, Cento anni di vita italiana visti attraverso il Corriere della Sera di Denis Mack Smith, dava una risposta netta, sin dal titolo: il giornale è uno specchio nel quale, ogni mattino, si riflette una nazione, con le sue paure e le sue speranze.
Il secondo volume, a firma di un redattore della testata, Glauco Licata, risolveva il quesito invece in maniera completamente diversa, invitando a rivolgere piuttosto lo sguardo al dietroscena. Il quotidiano, visto dall’interno, è anzitutto una macchina complessa, con i suoi equilibri delicati (impresa commerciale e baluardo della democrazia, strumento di pressione e luogo di elaborazione intellettuale collettiva): e come tale merita di essere studiato. Quale che sia l’immagine che alla fine viene a disegnarsi sulla sua smagliante superfice.
Quarantacinque anni dopo le due monografie, lanciandosi in una nuova, corposa storia del «Corriere», Pierluigi Allotti e Raffaele Liucci hanno imboccato con decisione questa seconda strada. Il metodo di lavoro dei due studiosi non è stato allora che la conseguenza di questa scelta iniziale: non spoglio delle prime pagine e degli articoli più significativi, ma solida ricerca d’archivio, per ricostruire tanto i rapporti tra il direttore e i giornalisti quanto la storia imprenditoriale del quotidiano, sfruttando l’abbondanza della documentazione conservata fino al 1992.
La parola chiave per interpretare il loro volume si legge però nel sottotitolo: “biografia”. Se la storia di una macchina ha infatti in sé qualcosa di necessariamente impersonale, Allotti e Liucci hanno scelto di mettere al centro del racconto gli uomini, con i loro caratteri, le loro passioni e le loro idiosincrasie: l’amore per i gatti di Mario Missiroli, il passo felpato di Giovanni Spadolini, il caratteraccio di Alberto Cavallari, le ritrosie di Ugo Stille… Il centro del quadro viene occupato così soprattutto dai direttori, a cominciare dalla scelta di suddividere i capitoli in base alle diverse “reggenze”, come si fa per le famiglie reali.
Se per la prima parte della storia questa scansione fa emergere tre figure dominanti – il Fondatore (Eugenio Torelli Viollier), il Direttore-Simbolo (Luigi Albertini) e il Fascistizzatore (Aldo Borelli) – dal 1945 il quadro muta radicalmente. Le direzioni si accorciano, il ricambio si fa più serrato, quasi tutti i mandati durano il tempo di una legislatura, tra i quattro anni e i sei. Anche per questo le varie esperienze, pur diversissime, sembrano caratterizzate tutte dalle medesime sfide: preservare il prestigio “albertiniano” della testata, resistere alle pressioni esterne (della politica e degli affari), gestire una trasformazione della società vista quasi sempre con sospetto, come un pericolo più che come un’opportunità (con l’eccezione del «Corriere» azionista di Mario Borsa nel 1945-46 e di quello corsaro di Piero Ottone negli anni Settanta). Nel quotidiano che ha avversato con forza le due grandi stagioni modernizzatrici dell’Italia del Novecento, vale a dire le riforme di Giolitti e il Centro-Sinistra, questo misoneismo preventivo non può certo sorprendere.
Dal racconto di Allotti e di Liucci, però, la condizione di insicurezza dei direttori (perennemente sotto assedio, dal momento in cui vengono designati) sembra determinata anzitutto dalle dinamiche fazionarie del «Corriere». Si comprende allora per quale motivo Indro Montanelli preferì sempre tenersi alla larga da questo incarico anche quando erano in molti a volerlo alla guida del giornale.
Per come Allotti e Liucci ricostruiscono la storia, sembra che molto presto il «Corriere» abbia cominciato a pagare il proprio stesso mito. Dopo l’epoca delle veline fasciste, al ritorno della libertà di stampa la stagione di Albertini divenne pietra di paragone per tutte le direzioni successive, con l’eccezione dell’innovatore Ottone e, sul versante opposto, di Franco Di Bella, il quale mise allegramente il giornale al servizio di Licio Gelli e dei suoi piani eversivi. Per così dire, dal 1945 al “Corriere” l’età dell’oro è sempre alle spalle, o così almeno sembrano pensare quasi tutti: persino quando i numeri delle vendite e il prestigio del giornale potrebbero indurre a un legittimo ottimismo. Da cui l’evidente schizofrenia del dopoguerra, tra desideri di svecchiamento e caparbia determinazione a mantenere stabile la barra.
Sarà vero che ne Il deserto dei Tartari Dino Buzzati volle rappresentare il «Corriere»? Di certo, è significativo che, di questa età argentea, Allotti e Liucci apprezzino soprattutto i direttori più impegnati a spendersi per il giornale: gli uomini di macchina, come Cavallari, al quale si deve la ripresa dopo gli anni della P2, o, tra, i non direttori, una figura chiave come Michele Mottola. I giornalisti-giornalisti, insomma: idealmente contrapposti ai giornalisti troppo intellettuali, che non amano sporcarsi le mani e si sentono solo in prestito alla stampa, perché hanno un cuore che batte altrove, per la politica o per la letteratura.
Il fiasco di Stille, apprezzato cronista politico dagli Stati Uniti che anche da Milano mantenne sempre una distanza mentale dai corridoi di via Solferino, diventa allora il simbolo di un atteggiamento che non ha mai portato bene al «Corriere». Probabilmente una lezione valida anche per il nostro presente.