Il Sole 24 Ore, 17 ottobre 2021
Vita, libri e stile secondo Arbasino
Ecco, si fa così. Perché mai dovrebbe interessarci la biografia di uno scrittore dei nostri tempi, uno che ha avuto sotto gli occhi più o meno lo stesso nostro mondo? La biografia di Dante, si può capire, ma quella di un nostro contemporaneo? Abbiamo i suoi libri, le sue lettere, a volte i diari: per quale ragione dovremmo voler sapere dove andava in vacanza da piccolo, come si chiamava la sua prima fidanzata e se preferiva l’arrosto o la bistecca? Non sono notizie superflue, con tante sue pagine ancora da leggere o rileggere?
In queste splendide centocinquanta pagine, cento se si tolgono le foto, Michele Masneri si è ben guardato dallo scrivere una biografia di Arbasino (che del resto esiste già ed è perfetta, in apertura del Meridiano dei Racconti e romanzi, l’hanno scritta insieme Arbasino e Manica), o anche solo un frammento di biografia, ma ha cercato di spiegare il significato che la vita e i libri di Arbasino hanno avuto per lui. Non è un libro su una sola persona ma su due, e l’altra è Masneri. Il ritrattato è nato nel 1930, il ritrattista nel 1974, e questo abisso ha un effetto rilassante sul ritrattista (e di conseguenza sul lettore), che non solo non compete ma non s’impanca neppure ad allievo o erede o – men che meno – confidente: si limita a contemplare in ammirazione. Di fatto, questo non è il diario di un’amicizia tra un vecchio scrittore e un giovane, Arbasino non dava confidenza neanche ai coetanei, figuriamoci ai trentenni.
Ora, lo “stile Alberto” del titolo – l’alluvione di saggi racconti e romanzi, le interviste ai famosissimi del Novecento, i concerti e le mostre già viste anni prima che le vedessimo noi, le colazioni a casa Kissinger, la casa-museo a Roma con le tappezzerie di William Morris e le stoffe di Mariano Fortuny comprata all’età in cui adesso si affitta un monolocale, gli spezzati e le cravatte perfette, le lingue straniere eccetera eccetera – lo stile Alberto è il precipitato di un’esistenza oggi non solo inimitabile ma quasi inimmaginabile per un giornalista-scrittore che non sia di cassetta, cioè che non faccia Tv. Benestante di famiglia, Arbasino ha saputo però mantenersi da solo con articoli e libri e teatro, in tempi in cui soprattutto i primi si pagavano tantissimo, e ha sempre fatto e scritto quello che voleva senza mai rendere conto a redattori, editor, commissioni di concorso, dipartimenti universitari. Una meravigliosa libertà che è finita, si direbbe, col Novecento, o con internet.
Quando Masneri entra in rapporto con lui, Arbasino ha già scritto tutti i suoi libri più belli, ma pubblica ancora, un po’ cose nuove un po’ vecchie cose riattate per i volumi Adelphi, e viaggia. È uno dei pochissimi grandi veramente grandi, uno dei pochi viventi su cui nessuno eccepisce. Ha passato i settant’anni, è l’età dei premi alla carriera, delle comparsate da venerato maestro in televisione (dove non buca lo schermo: come non lo bucava nel 1977 nel talk-show «Match» che adesso si può vedere su RaiPlay). Esiste un tratto, un’attitudine che possano dirsi caratteristici di questo Arbasino senile? L’impressione, a dirla in breve, è questa: che all’infinita curiosità e all’infinita energia della giovinezza e della prima età matura si sia sostituita l’amarezza, l’insofferenza nei confronti degli altri, soprattutto gli altri italiani, che proprio non sono all’altezza. Non è una reazione anomala, per un intellettuale settuagenario (Stajano: «Senatore Parri, qual è la cosa che nella vita l’ha più delusa?». Parri: «Mah, il popolo italiano, ecco»), ma al penultimo e all’ultimo Arbasino questo stato d’animo ha ispirato valanghe di pagine risentite e anche un po’ querule (lui che detestava i lagnosi), piene di anatemi contro gli zombi che hanno devastato le città, reso infrequentabili le mostre, i concerti, la Tv, la politica...È sempre la vecchia insofferenza per la ’mutazione’, e il rimpianto per l’Italia di prima, salvo il fatto che più che incolpare il boom economico Arbasino mette il punto di frattura verso il Sessantotto: «L’impressione fondamentale di quegli anni indubbiamente fu: qui si avvia a funzionare un “tutto di massa” come nella televisione, i movimenti accelerano l’azzeramento di ogni originalità individuale nella sudditanza omogeneizzata dei comportamenti standard e degli zombi intercambiabili. Abituati a risposte collettive e meccaniche, saranno capaci di gesti personali mai più? Come risultato della “collettivizzazione” iniziata in politica e finita in pubblicità: ecco la zombaggine dei consumatori che credono automaticamente in qualunque slogan» (Il mio ’68).
Quanto al coprotagonista del libro, Michele, la sua devozione per lo scrittore-idolo Arbasino la si era intuita leggendo le sue cose sul Foglio o su Rivista Studio, e il romanzo Addio, Monti (2014), e soprattutto il reportage dalla California Steve Jobs non abita più qui (2020), perché Masneri scrive un po’ come Arbasino sia nella lingua (forbitissimo stile “parlato”, paratassi, polisindeti, frasi senza verbo, congiunzioni e avverbi in posizione marcata) sia nella scelta del punto di vista (osservatore partecipante, diciamo, ma bene attento a mantenersi a debita distanza emotiva dai fatti o dai libri raccontati), sia nel tono blasé(Never explain, never complain, solo i cretini s’indignano ecc.). Quanto al resto, ha letto meno libri e visto meno mostre, il che quasi sempre lo salva dal name-droppingarbasinesco, ma in compenso è più simpatico, spiritoso, affettuoso, umano, aperto al mondo, giovane.
Entrare nell’opera di Arbasino non è facile. Il narratore richiede un’attenzione e una pazienza che oggi molti lettori non hanno; e il saggista allude, evoca, non spiega, e si fa più opaco e stenografico, e spesso irritante, a mano a mano che gli anni passano. Quindi ognuno deve trovare la sua porta. I coraggiosi possono affrontare Fratelli d’Italia, magari col metodo-Masneri: «L’Arbasino definitivo: è inutile pretendere di leggerlo dall’inizio. Va aperto a caso, come l’I Ching» (ma non vale anche per gli altri libri?). Più amichevoli i diari di viaggio raccolti in Trans-Pacific Express; mentre i letterati hanno Certi romanzi e Sessanta posizioni; e chi vuol sapere come si sono vissuti i mesi del sequestro Moro può cominciare con In questo Stato. Ma adesso mi pare che Stile Alberto sia una porta perfetta: dice quel che va detto dell’Uomo, rendendolo irresistibilmente simpatico anche se non doveva essere simpatico nel senso corrente del termine; e l’Opera la guarda di traverso, com’è giusto (molto bella l’idea della «bibliografia confidenziale» in appendice), e con, disseminati nel racconto, brani scelti con mano felicissima (in esergo la chiusa di un racconto giovanile, Distesa estate, così mirabile che non bisogna farsi sfuggire l’occasione di ri-citarla: «Addio fiori scale orologio immobile giochi perduti; non sarò ragazzo mai più e neanch’io lo vorrei, però mi è piaciuto molto»). E allo stesso prezzo si fa la conoscenza di un altro scrittore che conta tra i più originali e intelligenti di oggi.