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 2021  ottobre 17 Domenica calendario

Il viaggio di Einstein in Italia nel 1921

«Illustre collega, un Comitato espressamente costituitosi vuole promuovere annualmente conferenze di illustri scienziati stranieri presso la nostra Università di Bologna. Si desidera d’iniziare la cosa nel modo più alto, chiamando qui una personalità superiore e dando luogo a discorsi o, eventualmente, a discussioni sopra un oggetto d’importanza universalmente riconosciuta. Nessun nome è sembrato pari al Suo e nessun soggetto così appassionante per il mondo scientifico come la relatività». 
L’«illustre collega» che Federigo Enriques, matematico di fama internazionale, filosofo e storico della scienza, invitava nel gennaio del 1921 a tenere un ciclo di conferenze presso l’Alma Mater era Albert Einstein. La fama del fisico di Ulm – allora professore a Berlino – era esplosa da poco più di un anno, da quando era stata verificata la predizione chiave della relatività generale, l’incurvamento dei raggi di luce per effetto della gravità. A Enriques Einstein rispose subito con entusiasmo. Per lui l’Italia – dove da ragazzo aveva vissuto uno dei periodi più felici della sua vita, al seguito della famiglia che risiedeva a Pavia – era un richiamo troppo forte: «Ho sempre ricordato il vostro paese con nostalgia», scrisse a Enriques, aggiungendo che avrebbe tenuto le sue conferenze in italiano. L’invito gli offriva oltretutto l’opportunità di incontrare finalmente gli artefici di quel calcolo differenziale assoluto su cui aveva fondato matematicamente la sua teoria, Gregorio Ricci Curbastro e Tullio Levi-Civita. 
Einstein e Enriques si conoscevano da tempo, pur non essendosi mai incontrati. Prima della guerra, i loro nomi si erano incrociati in più di un’occasione. Nel 1914 Einstein aveva scritto un articolo per «Scientia», la rivista diretta da Enriques. Inoltre, aveva probabilmente avuto modo di leggere e apprezzare il libro di Enriques Problemi della scienza, tradotto in tedesco nel 1910. Gliene aveva consigliata la lettura, nel 1915, l’amico Heinrich Zangger: «Devi leggere il volume di Enriques: sembra che sia stato scritto per te», gli aveva detto. Ricambiando i saluti di Einstein, nel 1920, Enriques gli scrisse: «Una mia vivissima aspirazione è d’incontrarmi con Lei in condizioni favorevoli a una riposata conversazione. Chi sa quando potrò appagarla?». L’occasione sarebbe giunta presto, l’anno successivo.
La visita di Einstein in Italia si svolse dal 17 al 28 ottobre 1921: i primi giorni, in forma privata, a Firenze, dove viveva da qualche tempo la sorella Maja, poi a Bologna, per gli impegni ufficiali, infine brevemente a Padova. Adriana Enriques, giovane studentessa di matematica, fu incaricata dal padre di accogliere alla stazione di Bologna l’illustre ospite, il pomeriggio del 21 ottobre. Così ricorderà in seguito l’arrivo di Einstein: «Quando da un vagone di terza classe scese un alto signore con l’aspetto imponente, il cappello nero a larghe falde come quello che portavano gli artisti, i capelli ricadenti fin sulle orecchie, non avemmo alcun dubbio (…) Era lui, non poteva essere che lui, Alberto Einstein. Non lo conoscevamo nemmeno in fotografia, eppure lo avremmo riconosciuto anche fra migliaia di viaggiatori. L’impronta del genio sembrava scritta sulla sua fronte». 
Nei giorni successivi, la stampa cittadina e nazionale coprì capillarmente il soggiorno di Einstein. In un’intervista ad Aldo Sorani, cronista del giornale milanese «Il Secolo», Einstein commentò il clamore suscitato dalla sua teoria, ipotizzando che fosse dovuto essenzialmente a due motivi: «Il primo è che nella teoria della relatività si vede un qualche cosa che allontana dalla vita umana, da questa vita umana d’oggi così tumultuosa, problematica, così piena di crisi innumerevoli, di trapassi sociali e morali improvvisi. C’è nel mondo un diffuso e confuso bisogno di uscire in qualche modo dal caos che la guerra ha lasciato, di liberarsi dalla veste fangosa e insanguinata di cui tutti ci siamo trovati rivestiti, di uscire da noi stessi. E il secondo motivo è questo, secondo me: che i movimenti importanti di pensiero, quelle che sono o vengono credute grandi innovazioni e maturazioni spirituali, avvengono sempre, quasi miracolosamente, nei momenti più politicamente e socialmente agitati». 
All’ultima delle conferenze del grande fisico, il 26 ottobre, era presente una delle firme più prestigiose del giornalismo italiano, Ugo Ojetti, il quale, pochi giorni dopo, pubblicò sul «Corriere della Sera» un articolo, dal titolo Il volto di Einstein, in cui descriveva, con il suo inconfondibile stile, la figura del grande scienziato: «Questa serenità, questa freschezza di fanciullo, è la magia con cui egli tiene lì incatenato e, dicono innamorato, questo grande pubblico. Per essa sentiamo la parentela tra questo inesorabile matematico dal nome di sasso, e un poeta. Ha le stesse ali, la stessa sete d’infinito, la stessa fede nella realtà dei sogni, voglio dir delle ipotesi: la stessa fede nell’assoluto anche del relativo».
«Venne a colazione due volte da noi – racconta ancora Adriana Enriques -; ci parlò della sua famiglia, della sua passione per il violino. Passeggiando con lui per le strade di Bologna, notammo che aveva un fine gusto per l’arte». Proprio in occasione di un pranzo a casa Enriques, Adriana gli chiese di inaugurare, con una dedica, un piccolo taccuino che aveva appena comprato. Le parole che Einstein scrisse per lei rimangono tra le più belle (e famose) che egli ci abbia lasciato: «Lo studio e in generale la ricerca della verità e della bellezza sono un ambito in cui ci è permesso rimanere bambini per tutta la vita». Aveva evidentemente colto nel segno Ojetti, quando nel genio che ammaliava il pubblico dalla cattedra dell’Archiginnasio aveva visto, innanzi tutto, «un fanciullo beato di giocare con le idee e coi mondi e con l’infinità». In seguito, per settant’anni, fino alla sua morte nel 1994, Adriana raccolse nel taccuino le firme di alcuni dei più grandi scienziati e intellettuali del Novecento. Ma la prima è quella a cui restò sempre più affezionata.