Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  ottobre 17 Domenica calendario

Autoritratto di Paul McCartney in 154 canzoni

Tu che Paul McCartney preferisci? La malinconia di Yesterday? Lo zucchero, al limite del diabetico, di Here There and Everywhere? La scarica rock di Helter Skelter? La testa in acido di Fixing a Hole? La poesia di A Day In the Life? Le sperimentazioni electro di Temporary Secretary? Il genio dei Beatles? Il professionista degli Wings? L’imprevedibile solista, a volte annoiato, altre caricato a pallettoni?
Sir Paul, nato a Liverpool nel 1942, ha segnato un’epoca in coppia con John Lennon (e con un non piccolo ma grande aiuto di George Harrison e Ringo Starr). Con il rock’n’roll un nuovo consumatore faceva irruzione sulle scene, l’adolescente, con le sue rivendicazioni contro il mondo degli adulti e con le sue richieste di libertà nei costumi, specie quelli sessuali. I Beatles hanno attraversato il meglio e il peggio degli anni ’60, la gioia e le infatuazioni, la sperimentazione e i santoni indiani, la rivoluzione e il pacifismo. Poi McCartney ha dato vita a una carriera da solista altalenante, nonostante il successo duraturo. Qualunque sia il vostro McCartney preferito, lo troverete in The Lyrics (introduzione di Paul Muldoon, Rizzoli, euro 65, in uscita il 9 novembre) straordinaria opera in due volumi, per un totale di circa 900 pagine, in cui il musicista racconta la sua vita attraverso 154 canzoni, in ordine alfabetico, accompagnate da riproduzioni di autografi e splendide fotografie. Macca rivela le circostanze in cui sono stati scritti i brani; le persone e i luoghi d’ispirazione, a partire dai genitori Jim e Mary, nominati spessissimo; e infine ritrae i compagni di viaggio, tra i quali spiccano, ovviamente, John Lennon e la prima moglie Linda Eastman. Ecco dunque un possibile percorso nella discografia di Paul McCartney, canzone per canzone.
A DAY IN THE LIFE (1967) All’epoca, Paul ascolta molta musica contemporanea: «Stockhausen. Luciano Berio. John Cage, – sai, il suo brano completamente silenzioso, 4’33’’. Ero molto intrigato da quelle cose, e volevo un momento strumentale fuori dagli schemi a metà di A Day in the Life». L’orchestra sembra uscire da un buco nero, per poi riprecipitarci dentro.
ELEANOR RIGBY (1966) È il nome inciso su una tomba del cimitero della chiesa di St. Peter a Woolton, «dove io e John certamente ci eravamo aggirati, chiacchierando interminabilmente sul nostro futuro». La parrocchia ha avuto un ruolo chiave nella storia dei Beatles. È lì che Ivan Vaughan presenta a Paul un nuovo amico: John Lennon. Era il 1957. Eleanor Rigby si chiamava Daisy Hawkins, era una signora che pagava ai ragazzi qualche scellino per pulire un capanno o tosare un prato. Paul ne divenne amico.
FIXING A HOLE (1967) «Sul fronte dell’LSD sono stato abbastanza fortunato, nel senso che non ha rovinato troppo la faccenda. Certo, aveva una componente che faceva paura. La componente davvero spaventosa era che quando avresti voluto fermarti, non ci riuscivi... Così andavi a dormire con le visioni». Paul, a letto, quando chiudeva gli occhi, era perseguitato da un piccolo buco blu, sembrava qualcosa da rattoppare, oppure un varco dietro al quale scoprire la verità.
GET BACK (1969) Il tentativo di tornare alle origini per salvare la band. Ma nel settembre del ’69, durante una riunione, John dice: «Beh’, io non ci sto, me ne vado. Addio». Un colpo da ko: «Ci è voluto un po’, ma credo di aver accettato l’idea. Lui era il mio migliore amico sin dai tempi dell’adolescenza, il collaboratore con il quale avevo firmato alcune delle cose migliori del XX secolo (lo diceva lui, modestamente). Se lui si era innamorato di questa donna, che cosa c’entravo io? Non solo dovevo lasciarglielo fare, ma dovevo ammirarlo per averlo fatto». La donna citata, ovviamente, è Yoko Ono.
HELTER SKELTER (1968) Pete Townshend degli Who aveva annunciato di aver registrato il più assordante rock mai concepito. Paul arriva in studio e dice agli altri: «Vediamo quanto riusciamo a essere rumorosi e aggressivi». Ne esce una bomba distorta ancora oggi esempio di violenza e aggressività sonora. L’helter skelter è un tipo di scivolo che si trova nei parchi inglesi. Le strofe sono ispirate alla canzone della falsa tartaruga in Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll. Dall’altra parte dell’Atlantico, un folle, Charles Manson, si convince che il brano annunci l’Apocalisse e compie o fa compiere alla sua banda di hippie sballati una serie di omicidi tra cui quello di Sharon Tate. Come firma lascia la scritta «Helter Skelter».
HEY JUDE (1968) La canzone è dedicata a Julian, il figlio di John Lennon, nato dal primo matrimonio con Cynthia. Quando fu scritta, John si era separato dalla moglie, e per Julian era un momento duro. Paul ci scrive un brano. Il titolo originale era Hey Jules (diminutivo di Julian). «All’epoca non ero nemmeno sicuro che lui (John, ndr) sapesse che la canzone era per suo figlio».
LET IT BE (1970) Nasce da un sogno di Paul. La madre Mary dice al figlio: «Andrà tutto bene. Così sia». Ottimo. Però nell’Amleto, che Paul aveva studiato a memoria al liceo, ci sono questi due versi: «O, I could tell you – but let it be. – Horatio, I am Dead». All’epoca i Beatles erano nel marasma, ormai prossimi allo scioglimento. Ancora oggi, Paul ritiene che sia stata decisiva la presenza in studio di Yoko Ono: «Si metteva in mezzo, nel vero senso della parola, alle sessioni di registrazione, il che era gravoso».
PAPERBACK WRITER (1966) Paul era in cerca di un soggetto mai trattato in una canzone rock. Tira fuori dal cilindro questa finta lettera di uno scrittore a una casa editrice. Il punto però è un altro. Macca è soprattutto in cerca di armonie che possano competere con quelle dei Beach Boys, una sua influenza dichiarata (e reciproca, essendo i Beach Boys di Brian Wilson influenzati dai Beatles). Ammette Paul: «Forse abbiamo preso un paio di pagine dal manuale di tecniche dell’armonia dei Beach Boys...».
SGT. PEPPER’S LONELY HEARTS CLUB BAND (1967) Apre il disco psichedelico per eccellenza. Trasformare i Beatles in un’altra band, per uno spettacolo fittizio, era un modo di allentare la pressione. Considerato un capolavoro, il brano e il disco omonimo, nasce in aereo, quando il roadie Mal Evans chiede a Paul di passargli il sale e il pepe (salt and pepper). McCartney fraintende: «Come dici? Il sergente Pepe?» (Sergeant Pepper).
TICKET TO RIDE (1965) Paul e John amavano l’autostop. Questa canzone ricorda le vacanze del ’61. John aveva ricevuto un centinaio di sterline da uno zio dentista a Edimburgo. Chiama Paul e decidono di partire. Sono fortunati, un camionista li carica in Inghilterra e li scarica a Parigi. Camminano per la città. Una intera settimana. Vogliono arrivare in Spagna, ma ci ripensano. È il momento della massima amicizia tra i due. Paul: «Può suonare un po’ brutale, ma è giusto dire che, in generale, io avevo una bella vita e John no. La sua era stata più difficile, e aveva sviluppato una scorza più dura della mia. Era un tipo abbastanza cinico ma, come si dice, dal cuore d’oro. Un gran sentimentale, ma dalla scorza dura. Ed era una buona cosa per entrambi. Gli opposti si attraggono. Io riuscivo a calmare lui, e lui riusciva a infiammare me. L’uno sapeva vedere nell’altro ciò di cui aveva bisogno per essere completo».
YESTERDAY (1965) Il mito è confermato. All’inizio, questa delicata poesia, la canzone simbolo di Paul, parlava di uova strapazzate (scrambled eggs).