il Fatto Quotidiano, 17 ottobre 2021
Biografia di Lello Arena raccontata da lui stesso
La favola di Lello Arena inizia un pomeriggio all’oratorio, quando nella sala dedicata al teatro appare un ragazzo con i ricci scomposti (“perennemente scomposti”) e modi surreali.
Questa favola, Lello Arena, la racconta con la maturità di un 68enne ma con gli occhi di un sedicenne consapevole di aver incrociato il cammino con qualcuno di speciale: un supereroe, un genio, un unico, uno all’altezza di Totò ed Eduardo, come lo definisce lui.
Un supereroe in grado di creare una realtà alternativa, un Tom Sawyer di San Giorgio a Cremano, dove bastavano due fiocchi di neve, due assi di legno e un dosso per convincere gli amici che, quel giorno, la loro quotidianità era alpina. “Il mio non è un libro. È più uno spettacolo. È più un film. È più un romanzo. Eppure è tutto vero, con la bellezza di una storia straordinaria in cui fortunatamente sono incappato”.
La sua fortuna, per dirla esattamente alla Lello Arena, si chiama Massimo Troisi.
E le pagine della loro amicizia sono intitolate C’era una volta: in copertina i loro ricci neri, entrambi spettinati.
Quanto ci ha lavorato?
Due anni e mezzo; molti degli episodi escono dalla portata di una memoria normale, quindi mi sono inoltrato in ricerche, riscontri. Ho cercato documenti.
Da quanto ci pensava.
In realtà per niente, poi una delle editor di Rizzoli mi ha chiamato: “Se non lo scrivi, un giorno qualcuno lo farà al posto tuo”; (pausa) prima di iniziare ho affrontato la lettura di quello che già è stato prodotto su di noi, ed è un bagaglio piuttosto vasto: a volte sono rimasto leggermente stupito. (Pausa) Leggermente è un eufemismo.
Perché?
Ho scovato malafede o episodi totalmente inventati.
L’approccio emotivo durante la scrittura.
Tornare a quei momenti, e ricrearli, non è stato semplice: sono state emozioni fortissime.
La maggior fatica?
Ricostruire la nostra rottura, i se e i ma, i forse e i però: però potevo chiamarlo dopo la sua vittoria della Coppa Volpi; però potevo andare a trovarlo quando a Cinecittà stava ultimando Il Postino e le sue condizioni erano precarie; però potevo presentargli mia figlia Valentina. Non l’ha mai conosciuta. Alla fine dico “però” è andata così, anche se mi sono perso gli ultimi sette anni della sua vita; (pausa) chi mi ha visto nel periodo di scrittura può testimoniare il mio stato, la mia disperazione, e a tutti dettavo la linea: “La prossima volta che decido di cimentarmi con un libro, dissuadetemi!”.
La lite con Troisi nasce da un ruolo in un film…
Per Le vie del signore sono finite: dopo mesi e mesi di lavoro, di studio del mio personaggio, una sera Massimo mi chiama e mi comunica che avrei avuto un altro ruolo. Non accetto. E da lì parte un meccanismo più grande di noi, con incomprensioni e voci sbagliate; fino a quel momento la coppia era Troisi-Arena e funzionava molto.
Troisi è morto nel 1994 e in questi anni le hanno chiesto sempre di lui. Non si è mai scocciato?
Se uno gioca con Maradona come fa a non parlarne? Sono stato accanto a un genio e grazie a lui ho vissuto un qualcosa di epocale.
Nel libro lo definisce “intransigente”.
Negli stati e nei livelli più elevati, gli stessi che possiamo riferire a Totò o a Eduardo, c’è una sorta di specializzazione, pure dolorosa: sono artisti che si sono occupati in maniera intransigente dell’arte fino al punto di rinunciare a tutto il resto.
A cosa pensa?
Quando Eduardo parlava di suo figlio Luca ammetteva di non capire nulla di lui perché non lo aveva mai visto: “È cresciuto insieme a me eppure non me ne sono accorto”, ripeteva. Ma solo così si raggiungono certi livelli.
Per intransigenza Troisi l’ha pure cacciata…
Appunto! Erano i tempi del Centro Teatro Spazio a San Giorgio e, nonostante lo avessimo fondato insieme, un giorno aprì una riunione con una sua mozione che prevedeva il mio allontanamento: per lui non stavo dedicando tutto me stesso al collettivo. Era vero. Mi ero innamorato.
Troisi era già Troisi.
Lo è sempre stato. (Ride) Massimo, da bambino, un giorno decise di rapinare la banca del posto, e per riuscirci aveva studiato la realizzazione di un tunnel sotterraneo (pausa, altre risate). Ovvio, non sapeva nulla di come si fa un tunnel, eppure agli amici spiegava la giusta tecnica per evitare crolli.
Voi gli davate retta.
La magia si palesava appena lo incontravi: tutti eravamo portati a ottenere la sua felicità, e non era una questione di soggezione; stesso atteggiamento con la vicenda degli sci: uno non derubricava a cazzate le sue idee, ma prendeva le assi di legno e fingeva di scendere sulla neve, quando in realtà era melma. (Pausa) È questa sua capacità di portarti altrove, nel suo mondo, ad aver incantato prima noi e poi il pubblico.
Un’ipnosi…
Sì, un’ipnosi collettiva.
Nel libro parla poco della malattia.
Per noi non è mai esistita: quando è tornato dall’operazione a Houston, aveva una valvola cardiaca che produceva un ticchettio continuo, ma a parte questo rumore si comportava normalmente, restava sul palco due ore e mezzo, condivideva la nostra vita, non si è mai tirato indietro. Aggiungo: giocava a pallone, amava il Napoli e soprattutto gli piacevano molto le signorine; (ride) per le signorine accadeva di tutto.
Per una signorina avete discusso…
Si riferisce a Jennifer Beals? Dopo aver visto Flashdance decide che la doveva conoscere. Passa qualche tempo, poi un giorno torna a casa super felice, saltellante. “Massimo cos’hai?”. “Ragazzi, domani accade”. “Cosa?”. “Esco con Jennifer. Quanto è bella!” e accompagna la frase con un gesto particolare, come a disegnarne il corpo. E noi: “Guarda che nel film il fondoschiena non è suo, ma è la controfigura di un ballerino portoricano”. “Piantatela!”. “Guarda che è vero”.
Uno choc.
Ci rimase malissimo, per tre giorni non ci rivolse la parola al grido “certe informazioni vanno condivise”. (Sorride) Tra Massimo e Jennifer c’è stata una bella storia d’amore.
Quindi mai la malattia…
Solo una volta ed è stata la settimana più divertente della mia vita: io e lui, soli, all’ospedale di Houston: eravamo lì per i controlli e rimpiango di non aver portato una cinepresa. Qualcosa di eccezionale.
Perché?
Era lui contro tutti i medici, contro tutti i controlli, contro la città.
In che lingua parlava?
Io mi arrangiavo con l’inglese, lui niente e un giorno sono pure svenuto: gli era uscito l’ago dal braccio, perdeva sangue, e alla vista di quella chiazza sono finito a terra; non solo: per capire se il cuore funzionava bene, i medici gli avevano piazzato una macchinetta per controllare i battiti e la raccomandazione di svolgere una vita normale. Normale per loro. Quindi scale, sforzi e via così. Invece Massimo usciva dalla stanza d’ospedale, trovava una sedia in giardino, si sedeva, al più parlava o leggeva. “Devi muoverti”. “Ma io nella vita faccio questo”.
Per lei era…
Uno extra, di un’altra dimensione, di un differente universo e per questo, a volte, ho avuto la sensazione che fosse un po’ solo, che si dovesse accontentare di noi.
Con voi non gli è andata male.
Questo non lo so. Almeno la nostra parte l’abbiamo fatta e non è poco.
Nel libro scrive: “Con lui non era necessario essere perfetti, ma migliori sì”.
Si indispettiva quando vedeva gli attori non sforzarsi, non tentare il massimo. Lui metteva perennemente tutto se stesso, non c’erano eccezioni o rimpianti rispetto al progetto dell’arte: recitava sempre e da sempre come fosse un sold out alla Royal Albert Hall; (sorride) una sera, a Roma, c’erano tre spettatori in sala, piazzati al centro della prima fila.
Tre speciali…
Sì, ma non lo sapevamo. E fu incredibile: alla fine del primo atto non avevano riso neanche una volta; noi tra l’incazzato e l’avvilito torniamo nei camerini. Nel secondo, e solo in un caso, c’è stato un accenno di apprezzamento. Basta. Finito lo spettacolo ci convocano: erano Giancarlo Magalli, Mario Pogliotti ed Enzo Trapani. Cercavano nuovi artisti per il programma Rai Non stop.
Secondo Bruno Voglino, con il quale avete lavorato, gli artisti sono fragili.
Più che fragili, psicolabili: parliamo di persone che ogni giorno hanno uno sdoppiamento della personalità. E questo richiede uno sforzo consistente, con inevitabili conseguenze.
In quegli anni incrociate pure Arbore e Benigni.
Roberto era un soggetto strano, molto schivo, timido, per noi era inquadrato solo come amico di Renzo; (pausa) davvero, non lo abbiamo mai focalizzato come un essere autonomo: arrivava Renzo e dietro c’era lui, un po’ come De Crescenzo, Pazzaglia o Isabella Rossellini; (cambia tono) una delle più grandi emozioni dopo il nostro arrivo a Roma è stata una sera, quando ci avvertono: “In prima fila ci sono Renzo Arbore e Mariangela Melato”. Per noi due miti assoluti.
È stato geloso di Non ci resta che piangere, della loro complicità?
No, perché non ho mai capito fino in fondo il tipo di complicità.
Traduciamo.
Mi sembrava che Massimo si fosse impadronito della situazione e che Roberto gli avesse giustamente riconosciuto la superiorità. (Sorride)…
A cosa pensa…
Che la “questione” Beals non è stato un episodio isolato; quando Renzo era impegnato con Indietro tutta e c’erano le ragazze Coccodè, Massimo il pomeriggio si vestiva, si profumava e usciva. Cosa rarissima, perché non andava mai da nessuna parte.
Quindi?
Tempo dopo ho capito che andava a vedere lo spettacolo proprio per le Coccodè, fino a quando un pomeriggio è tornato da noi come una specie di belva: “Che è successo?”. “Niente, non ho voglia di parlarne”. “Ma che hai?”. “Ho litigato con Renzo”. Noi basiti. Per il carattere di entrambi ci sembrava impossibile una discussione.
Eppure.
Lo calmiamo e capiamo: “Non si fa così! In mezzo a quelle Coccodè ci sono tre uomini. Uno deve avvisare”. E dopo un breve silenzio ha aggiunto: “Ho fatto il cretino con uno di questi travestiti”. Nella sua ottica quello di Renzo era il tradimento di un amico. (Pausa) Anche Renzo dovrebbe scrivere un libro su Massimo, sarebbe fantastico.
Lo sogna?
Più che altro ogni tanto torna a prendermi in giro, un po’ quello che accadeva durante le nostre giornate; e il tono è uno che ti dice: “Stai ancora là? Ancora a quel punto? Ancora perdi tempo? Quando mi raggiungi?”. Mentre lui, professionalmente, è andato avanti.
E si sveglia con l’angoscia?
No, perché torno a quello sfottò pieno di affetto; oggi quel tipo di ironia me la regala ancora Renzo, e lo motiva: “Se ci fosse Massimo ti direbbe così”. E sono contento.