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 2021  ottobre 17 Domenica calendario

Hezbollah distribuisce soldi e speranze

Sono da poco passate le quattro, dalla moschea vicina il canto del muezzin chiama alla preghiera, Mohammed guarda al di là del vetro, il suo sguardo è appeso al vuoto della finestra al nono piano dell’ospedale al-Salam di Tripoli, reparto grandi ustioni. Sul 65% per cento del corpo porta i segni di bruciature che non sono ancora cicatrici, le garze gli coprono il collo, la testa, ha perso l’orecchio sinistro. Solo le mani sono scoperte, la carne è viva, lucida come se gli avessero appena staccato la pelle.
La sera del 15 agosto era nel suo villaggio, Tlil, nel Nord del Libano, quando si è sparsa la voce che l’esercito stesse distribuendo carburante in una rimessa illegale confiscata a un noto contrabbandiere di zona. Il deposito era una stazione intermedia di traffici illeciti verso la Siria, i carichi arrivavano lì nei serbatoi, poi venivano divisi e inviati oltreconfine.
Mohammed, i fratelli e i cugini si sono diretti alla rimessa a piedi perché le automobili erano ferme da settimane, come i mezzi agricoli. Da mesi, a Tlil, non arrivava una goccia di benzina.
Hanno raggiunto il deposito e si sono messi in coda. Qualcuno portava via una bottiglia di benzina, qualcuno riusciva a riempire una tanica, qualcun altro si spogliava, imbeveva le magliette del carburante caduto sul piazzale e lo strizzava nei secchi per non sprecare nemmeno una goccia. Più passavano le ore più le persone si accalcavano finché i soldati – che non erano più in grado di gestire la situazione – hanno abbandonato il deposito lasciando centinaia di uomini a spartire, da soli, il contenuto del serbatoio.
Nessuno dei sopravvissuti ricorda cosa sia accaduto a quel punto, se siano stati spari arrivati dalla casa adiacente alla rimessa o un accendino usato impropriamente, fatto sta che alle due del mattino uno dei due serbatoi è esploso uccidendo 41 persone e ferendone più di ottanta. Quasi tutti giovanissimi, come i due fratelli di Mohammed, Ali e Ibrahim, 13 e 19 anni, bruciati vivi «gridavano “aiuto” col corpo in fiamme ma non potevo fare niente perché gridavo tra le fiamme anche io», dice. La sua adolescenza è stata un tempo di lavoro e fatica, ha lavorato come magazziniere da quando aveva 12 anni e prima della crisi il suo stipendio di 500 mila lire libanesi valeva circa 300 $, poco certo ma abbastanza per aiutare la famiglia nella regione più povera del Libano. Oggi, con la moneta che ha perso il 90% del suo valore, il cambio col dollaro è saltato e al mercato nero il suo stipendio vale poco più di 30 $.
La crisi della valuta è solo il primo di una catena di problemi che ha portato il Libano a cadere in poco meno di due anni, l’esplosione del porto di Beirut e la pandemia hanno fatto il resto e il domino è venuto giù. Oggi il 78% della popolazione vive ormai al di sotto della soglia di povertà, la compagnia statale di elettricità non riesce a garantire corrente, chi può si rifornisce dalla rete di contrabbandieri per far funzionare i generatori privati e compra benzina a tre, quattro volte il prezzo di mercato, chi non può, invece, vive al buio. Come Mohammed, i suoi fratelli e i suoi cugini, famiglie contadine in una regione che conta mezzo milione di persone di cui più della metà sono rifugiati siriani. Dal sito dell’esplosione la Siria dista solo otto chilometri, si vedono i villaggi dalla collina su cui le famiglie delle vittime hanno disposto due pile di mattoni di cemento a sostenere un telo bianco con i nomi dei caduti e una corona di fiori, sulle rose – ora appassite – c’è scritto: per i giovani di Tlil, morti nell’esplosione.
Anche Othman Hawiek è sopravvissuto. Le sue gambe sono coperte dalle calze a compressione. È la prima volta che torna sul luogo dell’esplosione dal 15 agosto, impiega alcuni minuti ad alzare lo sguardo da terra e guardare il piazzale. Al centro i camion carbonizzati. A terra ancora frammenti di scarpe, vestiti, sparsi lungo la collina che porta alla strada principale, forse qualcuno ha provato a strapparsi i vestiti di dosso per salvarsi la vita.Othman era in piedi sul tetto di uno dei camion, l’urto dell’esplosione lo ha spinto a qualche metro di distanza, e questo lo ha salvato. Quando ha aperto gli occhi ha visto decine di torce umane nella notte di Tlil. Non c’erano pompe d’acqua vicine e non c’erano ambulanze, nemmeno la Croce Rossa aveva carburante per raggiungere l’ospedale piu’ vicino, che dista un’ora e mezza d’auto. Per le vittime è stata una lenta agonia.
Othman è accompagnato da suo padre Hassan Hawiek che, silenzioso, sistema la corona di fiori piegata dal vento. Dopo l’esplosione nessun membro del governo si è fatto vivo per portare compensazioni e aiuti economici, «non è arrivato un soldo per i funerali né per le medicine per gli ustionati. Gli unguenti e le calze di Othman costano 90 dollari, che oggi sono tre mesi di stipendio». Abbassa la testa, Hassan, in un misto di pudore e vergogna, «ci servivano soldi, per questo abbiamo accettato il regalo che ci hanno portato». Il regalo, ripete più volte questa parola senza mai nominare il donatore, che è Hezbollah.
Tre settimane dopo l’incidente, una delegazione del gruppo sciita Hezbollah è arrivata a Tlil per consegnare 30 milioni di lire libanesi a ciascuna delle famiglie delle vittime e 15 milioni alle famiglie dei feriti. Il gesto è particolarmente significativo perché l’Akkar è una regione a maggioranza sunnita, nota per essere la roccaforte del Movimento del Futuro di Saad Hariri. I regali alla comunità di Tlil fanno parte della strategia di Hezbollah di apparire un partito politico caritatevole e aperto a tutti e l’unico in grado di gestire la crisi del Paese. L’ha fatto con le vittime dell’esplosione, portando denaro, e l’ha fatto garantendo l’accesso di carburante proveniente dall’Iran. Una settimana dopo la consegna degli aiuti in Akkar venti camion, ognuno con 50 mila litri di carburante, sono entrati nel Nord del Libano dalla Siria, violando le sanzioni Usa a chi faccia affari con il governo di Damasco. I convogli hanno attraversato le strade di Baalbek mentre la gente gridava «Alhan wa Sahlan», benvenuti, tra le bandiere di Hezbollah, le foto del leader Hassan Nasrallah, quelle di Bashar al Assad e quelle di Qasem Suleimani, l’ex generale delle guardie rivoluzionarie iraniane ucciso da un drone americano a Baghdad nel gennaio del 2020. Il leader di Hezbollah ha detto che il carburante era stato pagato da anonimi uomini d’affari libanesi e che Hezbollah non voleva trarre profitto ma alleviare le sofferenze delle persone. Nasrallah vuole presentarsi come un benefattore e vincere due guerre: quella esterna, dando di Hezbollah l’immagine di chi ha rotto l’embargo americano e quella interna, intervenendo dove lo stato ha fallito.
Sa che oggi gli Stati Uniti non possono permettersi di imporre sanzioni a una popolazione in ginocchio e sa che tutti, i sunniti, gli sciiti e i cristiani, hanno bisogno di benzina per sopravvivere.Ecco perché, oggi, lungo le strade libanesi i commenti sono unanimi: Nasrallah ha fatto scacco matto all’America.Lo dicono tutti, sia chi lo sostiene sia chi gli è storicamente antagonista.Così Hezbollah allarga il consenso. Così ha raccolto anche quello di Hassan, che si vergogna ma ammette: «Abbiamo accettato il regalo di Hezbollah perché dobbiamo sopravvivere. Sappiamo che sono una delle cause della rovina del Paese, ma ne avevamo bisogno, cos’altro possiamo fare?».