la Repubblica, 17 ottobre 2021
Lavorare meno, lavorare meglio?
Lavorare meno, stare meglio, produrre di più. Sembra la formula magica in cui tutti ci guadagnano, tanto le aziende che i dipendenti. Il dibattito non nasce certo oggi, ma l’accelerazione alla digitalizzazione imposta dalla crisi del Covid e l’esperimento massivo del lavoro da casa paiono aver creato le condizioni perché tutto questo possa accadere, davvero. I test in giro per il mondo si moltiplicano, ognuno affronta la questione a modo suo: la ricetta giusta ancora non c’è. In Belgio c’è sul tavolo del governo una proposta di settimana lavorativa a quattro giorni, ma con orario complessivo immutato: si tratterebbe di comprimerlo dal lunedì al giovedì, salendo a nove ore e mezza quotidiane per non toccare i salari. In Spagna, una maggioranza bulgara ha approvato il referendum interno al colosso della moda Desigual: cinquecento dipendenti del quartier generale di Barcellona saranno impegnati dal lunedì a giovedì (potendo fare un giorno di smart working) passando da 39,5 a 34 ore settimanali. L’orario scenderà dunque del 13%, lo stipendio solo del 6,5% perché l’azienda si fa carico della metà del costo. Arup, gruppo internazionale del design, va controcorrente: si lavora sette giorni su sette, ma il pacchetto orario è affidato ai dipendenti (e al coordinamento dei loro team) in nome della massima flessibilità. Se qualcuno preferisce lavorare nel weekend e guadagnare libertà in settimana, si faccia avanti.
Il miraggio è quello dell’Islanda, dove è stato sperimentato il taglio a quattro giorni, riducendo l’orario senza toccare gli stipendi: meno riunioni inutili e caffè, la produttività non ne ha perso e il benessere ne ha guadagnato. Ridurre il tempo del lavoro è dunque possibile? «Se questo significa adeguare gli stipendi, in Italia dovremmo pensarci due volte perché la base salariale è inferiore ad altri Paesi europei e ciò li rende di fatto irriducibili», ragiona Maurizio Del Conte, ordinario di Diritto del lavoro all’Università Bocconi. «Piuttosto possiamo pensare di rimodulare l’orario per migliorare la produttività». Un bagno di realismo, «necessario per un Paese che negli ultimi vent’anni ha visto crescere la produttività meno della metà della media europea».
Lo smart working, che ha picconato l’organizzazione spersonalizzata e fordista del lavoro, ha aperto «un ripensamento del parametro ora di lavoro/prestazione». Un «passaggio complicatissimo», dice Del Conte, che va a toccare alcuni istituti cardine del nostro modo di concepire – e regolare, tramite i contratti – i rapporti di lavoro. In primis, la struttura retributiva. Lavorare con flessibilità vuol dire abbandonare l’idea che si possa misurare la prestazione, e quindi pagarla, in base al tempo dedicato: l’ora. Va sostituita con un’analisi attenta delle singole mansioni, introducendo indicatori di prestazione ritagliati praticamente ad personam. In un’ottica di pagamento a risultato, anche gli “straordinari”, su cui molte famiglie impostano il budget, perderebbero senso: «L’ora passa da essere ‘reale’ a ‘nominale’. Le aziende devono introdurre una sorta di costo-standard sulla base del quale valutare le prestazioni». Già, ma dove? «Nella contrattazione collettiva – dice Del Conte – sennò si rischia arbitrarietà nelle mani del datore di lavoro».
«I contratti nazionali dovrebbero definire standard minimi ed evitare il peggioramento delle condizioni in alcuni ambiti che rischiano di pagare il cambio di paradigma», concorda Giovanna Fullin, sociologa del lavoro all’Università Bicocca. Il dettaglio va affidato alla contrattazione di secondo livello. Se il lavoro diventa a risultato, anche la sua organizzazione deve cambiare. La flessibilità porta con sé due rischi da evitare: «Che non sia fruita dal lavoratore ma imposta dal datore, “lavori quando ho bisogno”», dice Fullin. «Ampliare il margine di flessibilità è la grande sfida, ma il lavoro non deve strabordare sul tempo libero».
Difficili equilibri che aprono una fase nuova alle relazioni industriali con spazi da inventare. Il sindacato c’è, dice il segretario della Uil, Pierpaolo Bombardieri, che ha fatto della rimodulazione degli orari un cavallo di battaglia: «Non significa rispolverare il “lavorare meno, lavorare tutti” degli anni Settanta, ma introdurre diversi parametri per organizzare il lavoro, ridurne così l’orario e ridistribuire ricchezza». Quanto all’aprire questi capitoli al tavolo con le aziende: «Siamo pronti a buttare il cuore oltre l’ostacolo con una contrattazione di secondo livello per affrontare questi nuovi modelli organizzativi e tenere relazioni industriali all’avanguardia. La strada sulla quale sfidiamo Confindustria è capire che tipo di organizzazione del lavoro vogliamo per il domani. Verifichiamo come misurare competitività e produttività in modo diverso e la riduzione dell’orario di lavoro, a parità di trattamento economico, diventerà allora raggiungibile».