Corriere della Sera, 16 ottobre 2021
Le manie di Italo Rota
I primi fotogrammi sono scorci di Milano e delle sue architetture: contesto di elezione di Italo Rota, urbanista, docente, autore di allestimenti, qui voce narrante e protagonista del cortometraggio Pianeta Rota, che sarà proiettato il prossimo 24 ottobre nell’ambito di Milano Design Film Festival. Progettista sì, ma Rota nel film appare nelle meno note vesti di collezionista.
Lo stimolo – racconta – furono i «gadget di qualità» della Fiera Campionaria milanese, i prodotti esposti che allora erano simbolo di apertura al futuro. A fare il resto fu, tra gli anni ’70 e ’80, il girovagare nelle librerie antiquarie europee a caccia di illustrazioni per la rivista Lotus, di cui Rota allora era redattore e grafico, scoprendo favolosi volumi illustrati di cui diventò raccoglitore. Collezionare: mania o ossessione? «Direi una malattia», precisa Rota, a margine della narrazione del film. «Già a 16 anni lo facevo con i trattati di architettura del Rinascimento che in seguito ho scambiato con oggetti del ‘900», rievoca. «Poi è stata la volta dei giocattoli».
Eccolo nel film aggirarsi nel suo loft milanese tra stanze rivestite di librerie traboccanti e disseminate di giochi di ogni genere: pupazzi, bambole, figure da fumetto. «In realtà la mia passione sono i giocattoli disegnati dagli architetti: Joseph Hofmann, Le Corbusier… rappresentano parte del loro lavoro di ricerca. Tutto il contrario di una banalizzazione. Oppure i giochi scientifici progettati da scienziati, oggetti complessi assimilabili all’arte concettuale», spiega. «Invece non ho nessun interesse per i giochi ideati da chi lo fa per professione». Eppure, man mano che il film si dipana, emergono anche oggetti semplici, a volte quasi banali: un Calimero bianco, il cane del Signor Bonaventura, e tanti gadget del genere che una volta si appendeva allo specchietto retrovisore dell’auto. Ma non lasciamoci trarre in inganno: «Sono oggetti che per me hanno un valore nella costruzione dell’estetica moderna collettiva», così nel film Rota motiva questo sua propensione tanto viscerale.
Nessun pezzo è un incontro casuale: robot anni ‘60 di provenienza giapponese («Simboleggiano quella generazione figlia della bomba atomica»), il modellino smontabile della villa Savoye di Le Corbusier («É il mio oggetto preferito: un vero gioco di costruzione con stanze ricomponibili»), un raro volume di Walter Benjamin: «Averlo è stata un’avventura, non me ne separerò mai».
Ecco, il distacco: i fotogrammi scorrono, e agli oggetti disposti ovunque in bella vista si alternano scatole grandi e piccole che li nascondono: «Non sono un accumulatore seriale, compulsivo, di quelli che non buttano mai via niente, ripongono le cose in una certa posizione e non importa se diventano inaccessibili. Il mio è un collezionismo alla Andy Warhol: quando l’argomento per me si è esaurito, lo inscatolo», spiega. «La scatola è la nobilizzazione dell’oggetto: significa che l’ho interiorizzato e non mi serve più averlo vicino». E ci racconta un curioso «dietro le quinte»: «Tempo fa ho ritrovato semisepolta una “valigia di Duchamp”: nemmeno più mi ricordavo di averla, tanto l’avevo interiorizzata», rievoca di quella scatola-valigetta con riproduzioni di opere dell’artista, essa stessa opera d’arte. «In fondo è lo stesso processo che avviene per i miei progetti. Perché il collezionismo è una ricerca, un lusso che richiede tempo, ma genera conoscenza e incontri virtuosi. Ci fa progredire attraverso il confronto, e il vedere l’intelligenza che sta negli altri. Oltre la nostra».