La Stampa, 16 ottobre 2021
Prima condanna per il caporalato dei rider
Milano
Per la prima volta in Italia un imprenditore è stato condannato per caporalato sui rider. E suoi soldi usati per risarcire le vittime che ha sfruttato. Oltre mezzo milione di euro che Giuseppe Moltini, uno dei responsabili delle società che fornivano i fattorini a Uber Italia, custodiva in cassette bancarie. Un paio di giorni dopo aver ricevuto la visita dei Finanzieri, a febbraio 2020, il manager aveva provato a far sparire quel denaro. Ma gli investigatori lo avevano fermato in tempo. E i contanti, chiusi nei borsoni, erano stati sequestrati nella sua auto.
Ora i cinquecentomila euro verranno usati per risarcire i quarantaquattro rider che si sono costituiti parte civile nel processo contro di lui. Lo ha deciso il giudice Teresa De Pascale, che ieri ha condannato Moltini a 3 anni e 8 mesi in abbreviato. E ha disposto una provvisionale di 20 mila euro in favore della Cgil e di 10 mila a testa ai fattorini.
Qualcuno di loro ha già grandi progetti su come usarli. Rex, 27enne originario di Lagos in Nigeria, da sei anni a Torino, «città che amo e in cui vorrei crescere i miei figli», si fa portavoce del gruppo: «Sogno di iscrivermi all’università per diventare un giornalista o un attivista per i diritti umani». Lui era stato uno dei primi a denunciare le «condizioni di schiavitù» cui era costretto: «Ci pagavano a cottimo, rubavano le mance dei clienti, ci buttavano fuori dall’applicazione a loro piacimento. Anche il contratto che ci facevano era falso. Alcuni miei amici hanno pure perso il permesso di soggiorno per colpa loro».
Non ha litigato coi capi Rex, «ho denunciato tutto e ho creduto nella giustizia». La sentenza gli ha dato ragione: «Sono felice di questa condanna, dimostra che nessuno è al di sopra della legge. E a chi oggi è nelle condizioni in cui io ero allora dico: aggrappati ai tuoi sogni e non permettere a nessuno di rovinarli!».
Altri due imputati ieri sono stati condannati per reati fiscali, mentre il figlio di Moltini, Leonardo, e Danilo Donnini, sempre responsabili delle aziende di intermediazione di manodopera (Flash Road City e Frc) e accusati di caporalato, hanno già patteggiato una pena a tre anni il primo, e a due il secondo. Lunedì, invece, inizierà il processo a Gloria Bresciani, manager (sospesa) di Uber, accusata di aver sfruttato i fattorini.
Il commissariamento della filiale italiana della multinazionale, infine, è stato revocato a marzo dalla sezione misure di prevenzione del Tribunale, presieduta da Fabio Roia, che ha riconosciuto il percorso «virtuoso» intrapreso da Uber dopo le indagini del pm Paolo Storari e del Nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf.
Al centro dell’inchiesta, per la prima volta, le condizioni di lavoro dei rider, reclutati soprattutto tra i richiedenti asilo, disposti a lavorare per 3 euro e 75 lordi a consegna, indipendentemente dalla strada da percorrere, dalla pioggia, dalla neve, dai giorni di festa. Costretti a pagare assurde penali, come «80 euro in caso di perdita della borsa di lavoro», a non lamentarsi sotto la minaccia di essere sbattuti fuori dalla piattaforma.
«Finalmente è stato riconosciuto il diritto dei lavoratori a non essere trattati come schiavi – commenta l’avvocata Giulia Druetta, nel pool di legali che assistono i fattorini –, impiegati senza limiti umani da capi senza scrupoli. Il food delivery è una giungla di sfruttamento e molto resta da fare. Nonostante le prime pronunce favorevoli, le condizioni di lavoro, purtroppo, ancora non sono cambiate». —