Il Sole 24 Ore, 16 ottobre 2021
A fare il vino i francesi guadagnano di più
«Dobbiamo convincerci che è meglio vendere una bottiglia di vino in meno, ma collocare quelle che vendiamo a un prezzo migliore». Nella riflessione del presidente del Gruppo italiano vini (prima cantina italiana per fatturato), Corrado Casoli, esposta in una riunione riservata tra grandi marchi del vino, associazioni di produttori e consorzi, c’è il senso ultimo del lavoro commissionato da Unicredit a Nomisma e che verrà presentato domani nella giornata inaugurale di Vinitaly Special Edition (a Verona dal 17 al 19 ottobre).
La ricerca dal titolo “Il vino nel nuovo rating delle filiere agroalimentari” punta, sulla base dell’analisi di ben 60 indicatori riferiti a quattro diversi ambiti, a misurare il reale peso del settore vitivinicolo nel comparto agroalimentare e nell’economia italiana. Non solo. La misurazione definisce i punti di forza e di debolezza del vino italiano fornendo anche lo spunto per un confronto con i principali competitors, Francia in primo luogo. Il tutto poi per avere una solida base di riflessione per aprire il confronto all’interno della filiera – confronto che in via riservata è già cominciato – per arrivare a individuare le nuove traiettorie di sviluppo per il settore.
L’indice Agri4Index messo a punto da Nomisma e Unicredit prende in esame indicatori riferiti a quattro specifici ambiti che sono la struttura imprenditoriale del settore (se polverizzata o meno), il valore della produzione, l’orientamento al mercato (tasso di internazionalizzazione e performance dell’export) e infine i parametri economico finanziari quali redditività e indebitamento. L’indice che li sintetizza fornisce poi il posizionamento delle singole filiere.
Per tre su quattro di questi ambiti, ovvero per valore della produzione, orientamento al mercato e performance economico finanziarie il vino compare al primo posto tra le nove diverse filiere integrate dell’alimentare made in Italy prese in esame (dalle carni alla pasta, dall’olio d’oliva alle conserve vegetali dall’ortofrutta ai mangimi). Solo per struttura imprenditoriale il vino è preceduto da comparto lattiero caseario.
«Il settore vitivinicolo italiano – ha commentato il responsabile Unicredit Italia, Niccolo Ubertalli – oltre ad essere una realtà rilevante dell’economia italiana, rappresenta una delle eccellenze del made in Italy che contribuisce a determinare, soprattutto all’estero, l’identità del nostro Paese. In questo quadro si inserisce l’attenzione e l’interesse di UniCredit nei confronti del vino italiano, che quest’anno abbiamo supportato con 580 milioni di euro di nuove erogazioni (dal Basket bond di filiera al pegno rotativo). Un sostegno diretto agli investimenti degli operatori che si accompagna all’analisi di settore commissionata a Nomisma o alla storica partnership con il Vinitaly per promuovere il vino italiano sui mercati internazionali».
L’altro importante elemento che emerge dal lavoro di Nomisma e Unicredit è la possibilità di confrontare il settore vitivinicolo italiano con quello dei principali competitors, in primo luogo la Francia. «In questi anni l’Italia ha messo a segno una grande rincorsa – spiega il responsabile del settore agroalimentare di Nomisma, Denis Pantini –. Nel 2001 l’export francese in valore era più del doppio di quello italiano (5,3 miliardi contro 2,5), nel 2020 la differenza si era ridotta in valore al 39% in più. Molto del recupero italiano è dovuto alla rivoluzione nelle tipologie di vino esportato. Il vino sfuso e indifferenziato è passato in venti anni dal 41 al 21% del totale, i vini fermi in bottiglia sono cresciuti dal 51 al 54% e, soprattutto, gli spumanti sono quadruplicati passando da una quota del 5 al 20 per cento».
Ma nonostante i progressi resta un gap rilevante. Nel periodo esaminato il prezzo medio del vino italiano è passato dal 1,88 euro a bottiglia del 2001 ai 2,84 di oggi. Parallelamente i vini francesi sono passati da un prezzo medio di 2,56 euro a uno di 5. I listini dei vini francesi sono aumentati in proporzione molto più che quelli dei vini italiani nonostante il significativo riposizionamento tra le tipologie di vino esportate. «Ed è qui che bisogna intervenire – aggiunge Pantini –. Non tanto su best seller come il Prosecco che deve il suo successo all’ottimo rapporto qualità prezzo e per il quale un ritocco al rialzo dei listini potrebbe far perdere quote di mercato ma, soprattutto, sui grandi rossi per i quali si registra un’eccessiva variabilità nelle quotazioni. Un Barolo, ad esempio, lo si può trovare a 100 euro in enoteca e a meno di 20 al discount. Differenze che disorientano il consumatore».
«Ma molto si può fare anche su denominazioni meno celebri – conclude Pantini – come il Montepulciano d’Abruzzo che ha grandi potenzialità, ma che finora ha visto prevalere nella filiera le preoccupazioni sulle giacenze di invenduto. Insomma si sono abbassati i prezzi pur di non avere vino in cantina. La vera sfida è invece invertire la rotta: vendere meno ma a un prezzo maggiore».