ItaliaOggi, 16 ottobre 2021
Orsi&Tori
Non era mai accaduto che un altissimo dirigente del Pentagono si dimettesse per dire a tutta l’America e a tutto il mondo che gli Usa hanno già perso la competizione con la Cina per l’intelligenza artificiale. Ha avuto il coraggio di farlo e di dirlo Nicolas Chaillan, il primo chief software officer del Pentagono che si è dimesso per protestare contro la lentezza della trasformazione tecnologica nell’esercito americano, specificando che essa mette a rischio gli Stati Uniti. «Per 15-20 anni la Cina sarà dominante. È già certo», ha spiegato Chaillan, 37 anni e per tre impegnato per aumentare la sicurezza informatica del Pentagono. «È colpa dell’innovazione lenta nelle strutture dell’esercito, della riluttanza delle aziende statunitensi come Google a lavorare con lo Stato sull’AI e degli ampi e inconcludenti dibattiti etici sulla tecnologia». E ha aggiunto che, al contrario, le grandi aziende digitali cinesi devono collaborare con
il loro governo e stanno facendo investimenti massicci nell’AI. “In alcuni dipartimenti governativi le difese informatiche sono a “livello di scuola materna”. Il segretario della US Air Force, Frank Kendall, non ha potuto che ringraziare Chaillan per le raccomandazioni che ha fatto per lo sviluppo del software da lui eseguito per il Dipartimento.
Prima o poi, la bomba doveva esplodere. Non pochi scienziati che si occupano delle nuove tecnologie, dei big data e quindi dell’AI, in primo luogo il professor Mario Rasetti, presidente dell’Isi di Torino, l’Istituto di ricerca ai vertici mondiali, avvisano da tempo che la Cina sta avanzando a ritmi nettamente superiori a quegli degli Stati Uniti. E a parte ogni altra ragione, compresa la collaborazione stretta fra aziende e stato cinese, c’è un elemento fondamentale: gli Stati Uniti hanno 300 milioni di abitanti, la Cina 1,4 miliardi di cui almeno 1,2 miliardi con device che producono dati. E la Cina ha sistemi di calcolo quantistici con potenza superiore almeno del 25-30% a quella dei computer quantistici americani che hanno scelto la tecnologia a bassa temperatura, mentre la Cina, come ho già scritto in O&T, ha scelto la tecnologia ottica che dà performance nettamente superiori.
Non è un caso che nei giorni scorsi il presidente Joe Biden abbia fatto sapere che entro la fine del 2021 incontrerà il presidente cinese Xi Jinping. Sarà un summit virtuale ma sarà la prima volta che i due leader più importanti del mondo si incontrano da quando Biden è alla Casa Bianca. L’incontro è importante per ambedue i leader ma per Biden è importantissimo. Perché sarà per lui una sorta di test cruciale. Sia per la supremazia tecnologica raggiunta dalla Cina, ma anche perché, paradossalmente, Biden si è circondato di uno staff dedicato ai rapporti con la Cina che ha una visione dell’ex-Impero celeste assai più negativa dello staff del presidente repubblicano Donald Trump. E non solo: si sa che l’amministrazione Biden intende confermare, nell’area commerciale, tutti i dazi introdotti da Trump. La decisione è giustificata dal fatto che la Cina non ha importato dagli Usa che il 60% di quanto si era impegnata a importare. Ma la responsabile del commercio estero, Katherine Tai, rivela la vera ragione politica di questa visione, accusando la Cina di accentuare la caratteristica stato-centrica dell’economia, documentata dalla collaborazione fra grandi aziende quotate in borsa e il governo del primo mercato del mondo.
Il software del Pentagono rispetto a quello cinese, secondo Chaillan, è arretrato anche perché le aziende campioni cinesi collaborano con il governo, mentre appunto Google e gli altri campioni americani pensano solo ai loro profitti. Ma Dante Alighieri direbbe che siamo di fronte al contrappasso di una amministrazione, quella americana, che ha consentito ai cosiddetti Ott, con almeno i tre presidenti che hanno governato per otto anni (Bill Clinton, George W. Bush, Barack Obama), di crescere a dismisura senza nessuna applicazione della legge antitrust, che è nata proprio in America. Dall’alto della loro dimensione, del loro potere, della loro ricchezza, da Google in giù sono oggi quasi più potenti del governo americano e invece di collaborare nell’interesse di tutti, pensano solo al loro potere e ai loro profitti.
Si dirà: è la libertà d’impresa che negli Usa è massima, ma dalla fine dell’800 gli Usa hanno una legge antitrust capace di prevenire che il potere di un’azienda non impedisca l’esistenza in quel settore di altre società competitive e in grado di farsi concorrenza. Gli ultimi governi, appunto, non hanno attivato questa legge. E quindi sono nati i giganti, padroni del mondo. Questo punto Biden lo ha capito e ha nominato una tostissima giovane presidente della Federal trade commission, Lina Khan, ha idee chiare e un nuovo modo di interpretare le norme antitrust. Ma come dice l’ex capo del software del Pentagono, il tempo perso ha generato un gap pericoloso per il paese leader del mondo occidentale.
Non è il solo problema degli Stati Uniti, che non è più un solo paese ma due paesi in uno. Da una parte i ricchi e i super ricchi e dagli altri milioni e milioni di delegittimati, poveri fino all’impossibilità spesso di mangiare. In questo contesto ha del sarcastico, oltre che dell’assurdo, la querelle fra i due più ricchi americani sulla terra: Elon Musk di Tesla e di molte altre cose, compreso il programma di viaggi nello spazio, e Jeff Bezos di Amazon e di tutto l’apparato, altamente redditizio, che ha costruito intorno alla società di e-commerce. All’inizio della settimana hanno duellato con sfottò: Bezos ha rivendicato i suoi successi, Musk, che è ora primo nella classifica dei più ricchi d’America, ha fatto un twitter ironico in cui ha scritto secco: Jeff, sei il numero due. Ma nessuno dei due si preoccupa delle crescenti folle di poveri in canna. È l’America di cui il valore principale è il denaro e quindi il portafoglio più gonfio. Ma è anche la dimostrazione del perché le aziende leader degli Usa non sapendo collaborare fra loro, non possono certo collaborare con le istituzioni pubbliche.
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Il tema della tecnologia connessa all’economia non si esaurisce ovviamente nell’ egoismo delle aziende leader americane, ma riguarda direttamente appunto l’intelligenza artificiale, o learning machine, che è capofila del settore e influenza tutte le altre tecnologie.
Il bravissimo ministro dell’ambiente e transizione tecnologica, Roberto Cingolani, ha lanciato la riflessione sull’opportunità di ricreare piccole centrali che generino energia attraverso il nucleare. Apriti cielo, per un argomento come il nucleare in Italia, Se Cingolani non è stato insultato è quasi un miracolo, tanta è l’irrazionalità italiana su un settore fondamentale per il progresso.
La riprova? Il piano lanciato dalla Francia, che è già sul piano militare la prima potenza nucleare della Ue, ma che ora, per decisione del presidente Emmanuel Macron, ha annunciato un piano di centrali nucleari di piccola taglia, che hanno come caratteristica di generare scorie pulite che per questo dal presidente francese sono considerate energia verde anche ai fini del conteggio CO2 che ogni paese deve fare.
In Italia il nucleare, anche quello intelligente e verde, come lo ha presentato il professor Cingolani, è un po’ come il green-pass, che è uno strumento straordinariamente efficiente, ma che, demonizzato da poche minoranze, rischia di creare, strumentalmente, rischiose sollevazioni di piazza.
Vince talvolta in Italia la assoluta mancanza di cultura scientifica e di una informazione oggettiva, non di parte, che è quanto serve, anzi è indispensabile alla democrazia. Perché se invece di informazione oggettiva si ha informazione di parte o peggio informazione fatta di fake news, anche il governo più efficiente e rispettoso delle minoranze rischia di fallire.
Cingolani ha riproposto una nuova formula di energia nucleare, perché quella prodotta dai sistemi rinnovabili non basterà a far funzionare il mondo verso il quale sempre più stiamo andando: cioè una struttura pubblica e privata basata sulla blockchain (letteralmente catena di blocchi). “La blockchain sfrutta le caratteristiche di una rete informatica composta di nodi e consente di gestire e aggiornare in modo univoco e sicuro, un registro contenente dati e informazioni (per esempio transazioni) in maniera aperta condivisa e distribuita senza la necessità di un’entità centrale di controllo e verifica”. In linea di principio la blockchain potrebbe consentire di fare a meno di banche, istituzioni finanziarie, notai, società fiduciarie e ogni altra attività o professione per la quale è necessaria a un tempo la registrazione del dato e la riservatezza.
Invece, finora la blockchain viene confusa con le criptovalute, che usano la blockchain ma appunto non sono la blockchain.
Potenzialmente, la messa a punto della blockchain può rivoluzionare l’organizzazione degli stati e dei privati. Con una particolarità: per funzionare qualsiasi blockchain consuma enormi quantità di energia. Ecco perché per evitare un grave corto circuito fra le esigenze di energia pulita (o come dice Macron) green da una parte e dall’altra il prevedibile enorme sviluppo dei sistemi blockchain, occorre riprendere in considerazione la produzione di energia con il nucleare. Ma in Italia il nucleare è, comprensibilmente allora, demonizzato dal disastro di Chernobyl, quando nel 1986 esplose l’enorme centrale nucleare in Ucraina, parte dell’Unione sovietica. Anche in seguito a quel disastro, tutti i progetti italiani e le cinque centrali attive o costruite sono stati cancellate e chiuse nel 1990 e seguì un’altra messa al bando del nucleare con il referendum abrogativo del 2011. Soltanto all’estero l’Enel ha prodotto energia da centrali nucleari in Slovenia. C’è poi stata una partecipazione di larga minoranza (12,5%) nella francese Edf, con la conclusione della partnership nel 2012. Per contro Ansaldo Nucleare, che da oltre 30 anni si occupa di costruire centrali nucleari, ha costruito in jv con la canadese Aecl.
Il forte intervento sul tema da parte del ministro Cingolani potrebbe, dovrebbe, tradursi in un piano di piccole centrali nucleari, che, come in Francia, sazino la sete di energia per il crescente sviluppo del sistema blockchain.
In fin dei conti, a 35 anni dal disastro di Chernobyl la scienza e la tecnologia, oltre alla scelta di creare non una sola grande ma una serie di piccole centrali, è l’unica via per non arrestare lo sviluppo della blockchain. Uno sviluppo che in termini di tecnologia e applicazioni è davvero imbattibile e nessun stato può farne a meno. Come dire che se la scienza e la tecnologia procedessero a braccetto, non ci sarebbero dubbi sulle scelte da fare.
Nel frattempo, i due più ricchi del mondo si sfottono a vicenda. E Musk, che è sicuramente il più eclettico, ha risposto al tweet di Bezos intitolato Amazon.Bomb, con un emoji che rappresenta una medaglia d’argento, quella che va ai secondi. (riproduzione riservata)