Corriere della Sera, 15 ottobre 2021
Biografia di Edith Bruck raccontata da lei stessa
Lei ama definirle le cinque luci. «Sì, mi sono aggrappata a cinque gesti di umanità» racconta Edith Bruck, scrittrice e poetessa ungherese naturalizzata italiana, finalista al Premio Strega 2021 con «Il pane perduto» (La Nave di Teseo), dove descrive il suo calvario di deportata nei lager nazisti.
«Non avevo ancora compiuto 13 anni. Eravamo ad Auschwitz quando venni strappata da mia madre: mi attaccai a lei con le unghie, fu il momento più atroce, ma non c’è stato niente da fare e proprio in quel momento ho visto la prima luce».
Perché?
«Il soldato che mi strattonava con violenza, mi ordina “vai a destra”, poi capii perché: mia madre era destinata ai forni crematori, a destra invece c’erano i lavori forzati dove fui dirottata, un briciolo di pietà. La seconda luce, l’ho vista a Dachau. Noi ragazzine venivamo utilizzate come inservienti nella cucina di un castello, fuori dal campo, dove alloggiavano gli ufficiali tedeschi: per noi un luogo paradisiaco, perché riuscivamo di nascosto, ogni tanto, a rubare qualcosa da mangiare. Il cuoco, tedesco, mi chiese: “Come ti chiami?”. Non sapevo cosa rispondere, non eravamo delle persone, eravamo degli scheletri senza capelli. Non avevamo un nome, eravamo un numero, il mio era 11152. Il cuoco si avvicina e mi dice che aveva una bambina come me: tira fuori dalla tasca un pettinino e me lo regala. La terza luce: un altro soldato, un giorno mi sbatte addosso la sua gavetta ordinandomi di lavarla... ma lui sapeva che, nel fondo, era rimasta un po’ della sua marmellata, che aveva lasciato per me... La quarta luce, un sorvegliante che mi regala un suo guanto bucato. E infine la quinta luce, la più importante. Eravamo a Bergen-Belsen ed eravamo costretti a portare sulle spalle i pesanti giubbotti dei militari che stavano alla stazione in partenza per il fronte. Per ripagarci, si fa per dire, dello sforzo ci concedevano il doppio della zuppa, ma dovevamo percorrere tanti chilometri, andata e ritorno, nel freddo, nella neve... A un certo punto io non riuscivo più a sostenere quel peso, non ce la facevo più e, non solo io ma anche gli altri, cominciammo a buttarli per terra. Un soldato ci viene incontro urlando e chiedendoci chi aveva buttato giù i giubbotti, minacciando di sparare a tutti. Feci un passo avanti».
Un’eroina.
«No, è che tanto, in un modo o nell’altro, dovevi morire, quindi... tanto valeva... Il soldato mi spacca un orecchio e, dal dolore, cado a terra sanguinante. Mia sorella, che era al mio fianco, salta addosso al tedesco il quale, prima mi punta una pistola addosso, poi allunga una mano per aiutarmi ad alzarmi. Ero totalmente stupita, attonita però mi ritrovai in piedi».
E il tedesco come «giustificò» questo gesto di gentilezza?
«Dicendo: “Se una merdosa ebrea mette le mani addosso a un tedesco, merita di sopravvivere”. Una battuta da autentico nazista, tuttavia mi resi conto che non era tutto buio. Ho perso mio padre e mia madre, vivono dentro di me e il titolo del libro si riferisce al pane perduto che proprio mia madre aveva preparato nel forno il giorno in cui vennero a prelevarci a casa i fascisti ungheresi: lo aveva fatto lievitare la notte precedente ed era pronto per la cottura... che non è mai avvenuta».
Lei non accetta di essere definita un’eroina. Come è possibile sopravvivere a tanto orrore? Forse è stata aiutata dalla sua giovanissima età?
«Dovevamo sopravvivere e andare avanti, ma per me che provenivo da una famiglia povera non era troppo difficile. Noi eravamo più forti di coloro che appartenevano al ceto alto, quello dei ricchi, degli intellettuali... loro erano più viziati, non ce la facevano a sopportare, erano disperati e, senza difese, si ritrovavano ad affrontare un inferno, un disastro. Invece noi eravamo abituati alla vita dura, a sentirci rispondere dei no e qualche difesa in più ce l’avevamo: una volta tanto, essere poveri è stato un vantaggio. E furono poi proprio i compagni del lager che mi dissero: se sopravvivi racconta quello che è accaduto anche per noi. Ma non basta mai raccontare, non si riesce a dire tutto... c’è dell’indicibile. Lo scrivere è una terapia, è vomitare fuori, anche se scrivere, oggi, nelle mie condizioni non è facile: ho dei seri problemi di vista».
Com’è possibile scrivere un romanzo nel suo stato?
«Riesco a farlo nonostante gli occhi non mi sostengano più, scriverei anche se fossi cieca... Mi aiuto con la lente di ingrandimento e poi vengo aiutata anche dalla mia assistente. Sono certa che scriverò fino all’ultimo giorno della mia vita come Carlo Levi: l’ho visto scrivere completamente cieco, si aiutava con degli elastici, li utilizzava come righe, riempiendo gli spazi tra l’uno e l’altro. D’altronde io sono una istintiva, di pancia, ho un rapporto corporale con la scrittura».
Molto corporale è il suo romanzo, una vicenda autobiografica...
«Più che autobiografico lo definirei un libro storico. Poi, certo, ogni autore scrive il suo tema. Alberto Moravia diceva che tutti i libri, in un modo o nell’altro, sono autobiografici, non potrebbe essere altrimenti».
E pensare che lei, quando venne a vivere in Italia, debuttò come attrice nel celebre film «I soliti ignoti».
«Sì, una piccola parte, nella scena in cui litigo con il mio fidanzato sotto il lucernario... A quel tempo, in verità, non pensavo proprio di lavorare nel cinema. Lavoravo in un salone di bellezza a via Condotti, ne ero la direttrice e venivo pagata bene, ero stata assunta perché ero in grado di parlare varie lingue. Era frequentato da tanti personaggi importanti: Marcello Mastroianni, per esempio, veniva lì a tingersi i capelli quando doveva interpretare un nuovo film. Era il tempo della Dolce Vita e io la sera andavo a mangiare un piatto di spaghetti nell’allora ristorante Otello, a via della Croce: tutto il cinema italiano stava lì. Proprio in quel ristorante mi vide Mario Monicelli e mi propose quel piccolo ruolo: mi convinse, dicendomi “parla come vuoi, tanto devi far finta di litigare”».
In quell’ambiente di grandi attori, nel 1957 conobbe Nelo Risi, giusto?
«No, lo conobbi in un’altra circostanza. Lui era tornato dalla Cina e aveva programmato una conferenza. Una mia amica mi propose di andarlo a sentire: quando lo vidi sul palco, la sua figura nervosa, i suoi occhi eruditi... mi sono subito detta è lui l’uomo della mia vita e, infatti, alla fine ce l’ho fatta. Un uomo eccezionale, incorruttibile».
Tra voi una lunga storia d’amore. Fino alla sua scomparsa nel 2015.
«Il periodo della sua malattia, l’Alzheimer, sono stati i dieci anni in cui l’ho curato ed è stato il più bel periodo della mia esistenza, dipendeva da me ogni secondo... il mio bambino. Sono riuscita a tenerlo in vita, gli stringevo la mano notte e giorno e in quel periodo sono dimagrita 14 chili, ma è stato come tenere in vita i miei genitori. Sono certa che Nelo avrebbe potuto vivere ancora, se quel giorno non fosse caduto: io mi ero allontanata un attimo per andare al bagno e lui si era alzato per prendere qualcosa... È finita. Ho provato il vuoto totale, l’ho baciato, l’ho salutato e mi sono ammutolita, non capivo più dov’ero, chi ero...».
Poi gli ha dedicato quel bel libro «La rondine sul termosifone».
«Sì, perché nella mente di una persona affetta da quella malattia che devasta il cervello, ogni cosa può avere un suo senso, anche una rondine sul termosifone. Nelo lo sento sempre vicino a me, nel nostro letto dormo al posto suo e lui mi tocca sempre teneramente, è lì, non se n’è mai andato via. D’altro canto era un uomo tenace».
E ha sposato una donna tenace...
«Amava ripetermi che sapevo trasformare lo sterco in oro. Diceva: tu sai fare tutto. D’altro canto, io non ho potuto studiare molto da bambina e ho imparato a scrivere leggendo tanto».
Come mai ha scelto l’Italia come patria di adozione?
«Innanzitutto, quando venni liberata nell’aprile del ‘45 e tornai in Ungheria, non ci fu accoglienza al ritorno di noi sopravvissuti. Piuttosto il non ascolto, la gente non voleva sapere. Primo Levi, infatti, diceva che il mondo non era disposto ad ascoltare, ma io ero gonfia di parole e iniziai a scrivere nel ’46. Quindi prese il via il mio pellegrinaggio alla ricerca di un nido dove rifugiarmi, di una casa dove poter vivere, anche se non sapevo ancora dove cominciare a vivere. La prima volta che approdai in Italia fu a Napoli: era bello, pieno di luce, tutti accoglienti, sorridenti, invitanti... e poi la musica, il chiasso nelle strade, i panni stesi svolazzanti nei vicoli, tutto vibrante di vitalità... e ne sono stata rapita. Poi a Roma ho piantato radici profonde, ci vivo ancora a via del Babuino. Tra le lingue che conosco, preferisco quella italiana è meravigliosa, ariosa, musicale e poi non mi ricorda brutte cose... è libertà, salvezza».
Le è dispiaciuto non vincere il Premio Strega?
«Assolutamente no! Partecipare è stata un’esperienza magnifica. Per i premi che ho vinto in passato, ho vissuto esperienze negative con i compagni della gara, alcuni dei quali si sono comportati male, in maniera incivile, al limite della cattiveria. Stavolta invece ho trovato tutte persone straordinarie, molto carine con me. Il 2021 è stato un anno davvero speciale: a 90 anni, ho ricevuto onorificenze importanti, come il Premio Viareggio, e soprattutto la visita a casa di papa Francesco. Inoltre, vincendo lo Strega Giovani, ho avuto modo di parlare ai ragazzi: loro sono il nostro futuro e mi hanno giurato che non saranno più antisemiti e nazisti».