il venerdì, 15 ottobre 2021
Tullio Pericoli, autoritratto con paesaggi
«Sono arrivato qui nel 1961. Venivo da Colli del Tronto, è stato come uno sbarco sulla Luna. Ero pieno di ansia, di trepidazione. Ma dopo qualche mese ero già innamorato. L’accoglienza di Milano non è mai affettuosa, ma c’è un’energia magnetica che ti tira dentro. Capisci che le tue proposte sono prese sul serio. Ecco, Milano ti prende sul serio».
Sotto di noi ribolle il grande cantiere di corso Concordia, la metropolitana estende la sua rete, punta all’aeroporto di Linate. Indifferente al trambusto, al secondo piano di una vecchia casa di ringhiera, lo studio di Tullio Pericoli è quanto di più simile alla bottega di un pittore si possa immaginare: eserciti di pennelli in marcia verso le tele, matite, pastelli, pennini, boccette, tubetti, impiastri, lavori finiti e lavori in corso, cassetti che se li apri rigurgitano disegni e schizzi. Ovunque incombe la misteriosa alchimia dei colori, un caos organizzato il cui senso è chiaro solamente a Tullio. Guardiamo la città dalla finestra come due milanesi di lungo corso, nati altrove ma ormai da una vita figli di queste strade. La vista sul cantiere non è entusiasmante ma così è Milano, “mai affettuosa”. Però sempre molto operativa, gratificante: il 13 ottobre a Palazzo Reale apre una grande personale di Pericoli, coprodotta con il Comune e Skira, dieci sale per centocinquanta opere, allestimento di Pierluigi Cerri, curatori Michele Bonuomo e lo stesso Pericoli.
«Non è una mostra antologica», spiega lui con un sorriso impercettibile, forse l’ironia di un ottantenne che lavora con l’energia di un quarantenne e ancora non si sente in vena di catalogazioni e celebrazioni. «È una monografica, opere dal ’77 ai giorni nostri, con particolare spazio per il mio lavoro degli ultimi cinque anni. Dunque il paesaggio, che è il mio tema fondamentale, specie da quando ho potuto allentare il rapporto con le mie committenze, il lavoro di illustratore e di disegnatore, le collaborazioni con i giornali, e sono riuscito a fare soprattutto il pittore».
Ma senza committenza, senza i giornali, gli editori, i teatri, l’artista non lavora...
«La committenza è uno stimolo enorme. Viva la committenza! Ma questo vale per l’illustrazione, per il disegno, per le scenografie teatrali e liriche. La pittura invece soffre della mancanza di una vera committenza, perché il mercato è il peggiore dei committenti. Il mercato non ti chiede di raccontare quello che piace a te, ma quello che piace a lui».
Quello che “piace alla gente”, forse.
«Ma no, proprio quello che piace a lui. Quello che lui ha deciso che vale, quello che gli serve. Ma io avevo bisogno di libertà, di dare finalmente spazio, molto spazio, a quello che mi passava per la testa. E quello che mi passa per la testa è da sempre la stessa cosa. Il paesaggio».
I paesaggi di Pericoli sono, ormai, un inconfondibile classico. Colli, filari, calanchi, alberi, arature, profili di campi che lui traduce in una grafia densa e sottile, stilizzata eppure “viva”, come se asciugare il segno servisse a indovinare la forma profonda delle cose. Lo sguardo cerca di capire, la mano azzarda la soluzione...
«Dipingere un paesaggio è una cosa che si fa con tutto il corpo. C’è, intanto, il radicamento dei piedi nei luoghi dove li appoggi. C’è la reinvenzione di quello che vedi attraverso mano, braccio, spalla, testa e occhi. Impossibile dipingere se si perde il rapporto tra l’oggetto prodotto e il corpo che lo produce. Giorgio Bocca lo diceva anche della scrittura: le parole vengono fuori dai muscoli. Ma è una fatica che si sta perdendo. Rischiamo di usare gli occhi come il traduttore automatico sul web, che traduce tutto in maniera povera e ridicola perché non interpreta, non ragiona, usa solamente quello che è già stato detto prima. Lo stesso vale per il segno, se traduciamo in immagini già viste non c’è più la pittura, perché l’occhio del pittore deve imparare a vedere, non può accontentarsi del già visto. Difatti una mostra sul paesaggio, oggi, è un anacronismo, non è allineata con niente e con nessuno...».
Vuoi dire che non ci sono più pittori paesaggisti?
«Magari qualcuno c’è e si arrabbia se non lo cito, ma vale il discorso generale: tra fotografia e arte concettuale, l’immagine che abbiamo del mondo non è più una reinvenzione degli occhi e della mano, non è più pittura. La ricchezza della mano è l’errore, è l’errore che rende inconfondibile il segno».
Gli dico che la tecnologia, con la sua parola comoda, veloce, preconfezionata, ha prodotto grandi sconquassi e grande impoverimento anche nella scrittura. Aggiungo che però non dobbiamo lamentarci troppo, rischiamo di sembrare i tipici anziani borbottanti, o tempora o mores. Ridiamo di questa condizione per metà inevitabile, per metà rimediabile prendendoci in giro quanto basta. «Per carità non mi fare dire trombonate» dice Tullio, «oppure fai finta che le hai dette tu anche se le dico io».
Artista fino al midollo, Pericoli è anche un intellettuale, nel senso che pensa a quello che fa e a quello che dice. A proposito del suo lavoro ha scritto molto, e bene (ultimo, per Adelphi, Arte a parte). Ma il suo understatement, che è della persona come dell’artista, è sempre una garanzia, anzi una consolazione, in questo mondo di narcisi e di sgomitanti; e se anche dicesse una trombonata rischierei di non accorgermene, la sua conversazione è piana, concreta, sorretta tutto attorno dagli attrezzi della sua bottega, dalle migliaia di fogli e di tele impressi dalla sua mano. Di qualunque cosa stia parlando intendi che il riferimento è solido, è il suo lavoro, è il mondo materiale che ci circonda in questa mattinata di primo autunno, è l’orchestra dei pennelli e dei colori che ci fa corona. Dunque se uno come lui dice «il concettuale ha strozzato la pittura» non pensi a scuole di pensiero o a correnti artistiche. Pensi proprio a lui che dipinge, e mentre lo fa insegue «il segno come prodotto delle dita e degli occhi. Gli occhi della fronte ma anche gli occhi della mente. Perché il segno è una cosa che in natura non esiste. Devi inventarlo tu. Devi farlo. Immagino l’uomo delle caverne, in un dopocena, mentre il fuoco si sta spegnendo, che fa un segno sulla parete. È la più grande rivoluzione della storia. In principio non fu il verbo, in principio fu il segno. La parola è indietro rispetto al segno, perché il segno è cominciato prima».
Per questo la critica d’arte è così criptica, così astrusa?
«La critica d’arte è criptica perché è difficilissimo, per la scrittura, descrivere una cosa, la pittura, cominciata molto prima di lei».
È quasi ora di pranzo, che a Milano cade inesorabilmente entro l’una. Tullio ha ancora in serbo una sua urgenza, che è l’elogio della fatica, la fatica come strada maestra. «Il cervello, per istinto, ci suggerisce di non faticare. Mi capita, mentre dipingo, di decidere che il colore giusto è proprio quello, ma il tubetto non è a portata di mano, è dall’altra parte dello studio. L’istinto mi dice: cambia colore, prendine uno che è già qui, tanto è lo stesso. Ma non è lo stesso. Devi fare la fatica di alzarti e andare a prendere il tubetto giusto. La pigrizia è tremenda, la fatica è la salvezza».
Gli dico che condivido in pieno il discorso sulla fatica, sul rischio che la tecnologia, sollevandoci dalla fatica, ci chieda in cambio di rinunciare a troppe cose: prime tra tutte, l’autonomia e la soggettività, che per un autore sono tutto. Ma temo molto una recrudescenza della modalità o tempora o mores. Se proprio dobbiamo onorare il passato ci rifugiamo dunque nella rievocazione di quella meraviglia che fu Il Giorno di Italo Pietra, padre di quasi tutti i giornali moderni (anche Repubblica), nel quale Tullio fu accolto appena arrivato a Milano, con una lettera di Zavattini come viatico. Da quel giornale vennero Bocca, Aspesi, Brera, Fossati, Pericoli...
«Il Giorno è la famiglia che mi ha accolto e nutrito. Era un’officina di idee e di talenti, appena arrivato mi proposero di illustrare le Cosmicomiche di Calvino, che ancora non erano uscite in volume. Sono stato fortunato».
Hai anche lavorato tanto. Faticato tanto.
«Sì, ma ho faticato per piacere più che per dovere. Faticare era la strada per fare qualcosa di mio, e questo, guardandomi indietro, è quello che ho fatto: qualcosa di mio. Anche scegliere le opere da mettere in questa mostra è stata una faticaccia. Ma ne è valsa la pena, non vedo l’ora che si inauguri, sono molto felice di mostrare il mio lavoro nella città che mi ospita da sessant’anni».
Hai una tua graduatoria delle opere esposte? Quelle preferite? Quelle meno amate?
«Ce l’ho, ma non te la dico. Poi sai, il giudizio sulle opere cambia. Certe volte, quando sono qui da solo, in silenzio, sento un rumore dentro i cassetti. Sono i miei disegni che si muovono. Apro i cassetti e scopro che quadri e disegni sono cambiati, sono molto diversi da come me li ricordavo. O forse sono cambiato io...».
Apre un paio di quei grandi cassetti e mi mostra un tesoro: diverse migliaia di ritratti stipati in grossi volumi, volti appena schizzati o quasi terminati o rivisti, rifatti, quasi l’intero Novecento trasformato in segno. Li sta raccogliendo. A Palazzo Reale nove sale sono dedicate ai paesaggi, la decima ospita ritratti, i ritratti di Pericoli che trattano il volto come un territorio, e sono geografie dell’essere umano.
Dobbiamo scendere a pranzo proprio sotto le sue finestre, in una trattoria romana che Tullio garantisce buona – Milano prende sul serio chiunque arriva. Prima, però, vuole mostrarmi un’ultima cosa. Sono i disegni dei bambini di una quinta elementare di Vittorio Veneto. Una maestra intelligente e coraggiosa li ha fatti lavorare su alcuni schizzi molto stilizzati, una specie di ossatura dei ritratti più celebri disegnati da Pericoli. Partendo da quegli schizzi – pochi tratti del volto, pochi segni – i bambini dovevano disegnare dei paesaggi. Trasformare un volto in paesaggio, difficile concepire qualcosa di più “pericoliano”.
I disegni sono bellissimi, Tullio li passa tra le mani con evidente emozione, ritrova nello sguardo di quei bambini il suo sguardo, come se si chiudesse un cerchio. «Hai visto che cosa magnifica? Ci sono maestre così, ci sono bambini così”.
Finalmente possiamo congedarci da o tempora o mores, sentirci senza età e senza epoca, come tutti meritiamo di sentirci, almeno ogni tanto. Questi possono essere tempi bellissimi se una maestra elementare riesce ad accompagnare i suoi bambini lungo il percorso non semplice, non immediato, che dal viso di una persona arriva a generare un paesaggio. Qualche indicazione, matite, colori, molti colori, e la mano di esseri umani nati nel 2011 obbedisce allo “sguardo della mente” e inventa, dà forma, dà vita ai fogli bianchi. Quella maestra li ha fatti lavorare, faticare, ma il lavoro e la fatica sono giochi bellissimi. Chissà se il cavernicolo di cui parlava Tullio, mentre imprimeva il suo segno con un dito sporco di fuliggine, o con un pezzo di carbone, sulla parete della sua caverna, pensava di lavorare o di giocare. In principio era il segno.