Linkiesta, 15 ottobre 2021
Gli irrealizzabili sogni di Chimamanda Ngozi Adichie
I romanzi, dice una delle romanziere più importanti del mondo, non godono di ottima salute. Lo dice in apertura del Salone del libro di Torino, e lo dice per molte ragioni, una delle quali è la sincerità.
Chimamanda Ngozi Adichie è una così brava romanziera che, ogni volta che presento il mio libro, faccio una cosa per cui il mio editore vorrebbe buttarsi dalla finestra: dico di, invece di comprare il mio saggio, comprare “Americanah”, il mio preferito tra i romanzi della Adichie.
La ragione per cui è spesso nominata durante le mie presentazioni non è però un romanzo: sono le sue interviste, nelle quali dice sempre cose molto sagge su questo tempo sbandato. È, oltre che un’ottima romanziera, un’ottima pensatrice, e un’intervista è più adatta a questi tempi in cui si legge dal cellulare mentre si è in bagno o in metrò: avete mai provato a leggere seicento pagine sullo schermo d’un telefono?
Quindi Chimamanda viene invitata a tenere un discorso in apertura del Salone, e già si sa che sarà ottimo: i discorsi sono il suo forte – sono quelli la ragione per cui è famosa, mica i romanzi. “Dovremmo essere tutti femministi”, che è diventato un libro Einaudi (il suo editore italiano), e una maglietta di Dior, e una scenografia di Beyoncé, in principio fu un Ted Talk, quei comizi pop di dieci minuti con cui uno scrittore diventa un personaggio popolare nell’epoca di YouTube.
Lei è abbastanza intelligente da conoscere questo limite e trasformarlo in opportunità, e quindi fa un discorso su quello che non siamo. Sul mondo come lo vorrebbe, dopo la pandemia.
È una specie di lista di buoni propositi d’inizio anno. A un osservatore superficiale potrebbe sembrare una di quelle intervistate che, all’intervistatore banale che supplica «mi dica un suo difetto», rispondono «sono troppo generosa»; ma quelle che ci sanno fare le riconosci perché sbanalizzano le banalità.
Dice che non vorrà mai più dire ai suoi cari quanto li trovi irritanti, avendo in pandemia sentito tanto la loro mancanza – ma continuerà a trovarli irritanti.
Dice che prova invidia e insofferenza perché nessuno trova così strafiga l’uscita d’un libro, ma tutti si sovreccitano quando quel libro diventa un film (dice «un film», non «una serie», giacché è una donna del Novecento).
Dice che è la letteratura che fa i buoni cittadini, e a me viene in mente Obama che ogni fine anno elenca i suoi romanzi preferiti degli ultimi dodici mesi, e finché era presidente il mondo si divideva in chi pensava che avrebbe dovuto avere troppo da fare per leggere romanzi, e chi pensava che i romanzi aiutano a ragionare meglio, e Chimamanda era sicuramente nel secondo gruppo. I dialoghi di Platone erano intelligenti, dice, ma è l’epica di Omero che ha insegnato agli antichi Greci a essere buoni cittadini. Non sono sicura che sia vero, benché abbia sempre diffidato di quelli che dicono «Leggo solo saggistica», e questo è il miglior segno delle qualità intellettuali di Chimamanda: è una che apprezzi tanto più quanto meno sei d’accordo con lei.
Non sono d’accordo con la sua idea che la violenza sulle donne diminuirebbe se gli uomini leggessero più autrici, perché «è difficile essere violenti con qualcuno che percepisci come tuo pari» (ma non è mica la sintassi che ti ci fa pensare due volte, a darmi un cartone: è il body building; temessero di perdere la partita di boxe, non ci menerebbero mica: la violenza sulle donne è colpa della natura che ci ha fatte meno muscolose).
E tuttavia, è la prima che sento raccontare una storia non noiosa ma anzi assai affascinante sugli uomini che non leggono le donne. L’autista che la accompagna a un premio e le dice «io non leggo ma, anche leggessi, non leggerei la roba che scrive lei» è una scena d’un film che resterei seduta a vedere. Sebbene i film, con le loro due ore, non stiano molto meglio dei romanzi, in quest’epoca che, dice Chimamanda, sarà ricordata per la sua labilissima soglia d’attenzione.
O forse saremo ricordati come l’epoca in cui la Chiesa era convinta d’essere Galileo: lei parlava del sapere che sembrava ovvio, che la Terra fosse al centro di tutto, finché Galileo non puntò il cannocchiale in cielo, e io pensavo ai maccartisti dei generi sessuali che, se si fossero presi il disturbo d’ascoltarla, si sarebbero percepiti come l’inascoltato Galileo, mica come la prescrittiva Chiesa.
«Siamo una generazione rapidissima a decidere cosa sia sbagliato, ma non altrettanto capace di capire cosa sia vero», diceva lei, e io pensavo al femminismo dei cancelletti che, come Benigni in Johnny Stecchino, sbottava: non mi somiglia per niente.
«L’unica cosa certa nella nostra vita è l’incertezza», dice lei, e quindi chissà, magari s’avvera il suo sogno postpandemico, «che l’algoritmo social scompaia per sempre». Ma intanto restano sogni tutti, nella soglia d’attenzione da storia Instagram di quindici secondi. Tutti, anche – specialmente – quello che si tornino a leggere romanzi, o almeno qualcosa di abbastanza strutturato «da avere della punteggiatura».