il Fatto Quotidiano, 15 ottobre 2021
Intervista a Marc Plati (parla dell’alieno di Bowie e del nuovo disco)
“A volte si rilassava sul divano per riascoltare un nastro. C’era una finestra nella stanza, un giorno un raggio di luce gli inondò la fronte. Fu una rivelazione: ‘Wow, ecco Ziggy Stardust!’”.
L’alieno cui Bowie aveva dato vita tanti anni prima, caro Mark Plati.
Avevo conosciuto David quando era venuto ai Looking Glass Studios a Manhattan, insieme al chitarrista Reeves Gabrels. Cercavano un posto dove incidere cose nuove: quella era la struttura di Philip Glass, che aveva rielaborato il suo album Low. Avevo un ingaggio lì da ingegnere del suono.
Cominciaste a lavorare insieme sui dischi tra la fine del 900 e il nuovo millennio. Lei, Plati, come produttore e membro della band live di Bowie.
I dischi con cui David si riappropriò della sua libertà. Hours…, Heathen, Earthling. La spinta incessante ad andare oltre la comfort zone. Mi diceva: “Devi inoltrarti nell’acqua finché non provi paura”. Sfidò il proprio passato a Glanstonbury, nel giugno 2000.
Il leggendario ritorno a Glastonbury, quasi trenta anni dopo il debutto a quel Festival. Offrì una memorabile scaletta di classici. Lei era sul palco, Plati.
Chi se lo scorda? Ero lì, con la chitarra, nel mezzo di un triangolo con tre mostri come David, Earl Slick, il pianista Mike Garson. Bowie non sapeva se quello fosse il momento giusto per riprendersi la scena, c’era stato poco tempo per preparare lo show. Ma la potenza compressa si sciolse nell’energia assoluta sua e della band.
E due giorni dopo…
Andammo al Bbc Radio Theather Show, e fu un’altra storia. Eravamo rilassati e felici, dimenticammo il mondo fuori dalla sala. Poi tornammo a New York e David mi disse: “Dovremmo registrare un album come se fosse un live, buona la prima. Lo faremo, vero?”, aggiunse. Gli risposi: “Scommetto che lo dici a tutte le ragazze, conosco voi star”.
Invece…
Invece il suo piano era di ritrovarci in studio per dar vita a un mucchio di canzoni dimenticate degli esordi nei 60. Pezzi da rivisitare con un suono omogeneo e una sola potente band.
Come era nata l’idea?
La prima volta che avevo suonato dal vivo con lui era stata nell’autunno del 1999 per la tv Vh1, Storytellers, un format con racconti significativi e aneddoti tra le canzoni. David volle eseguirne una, I Can’t Help Thinking About Myself, che proveniva da metà anni 60, un tipico rock cazzuto e senza fronzoli, ma che faceva già intuire il suo potenziale di compositore. Da quella notte pensò di rispolverare con noi quella formidabile roba lasciata in soffitta.
Una lista di gemme perdute che vedrà la luce nell’album Toy, il “disco perduto”. Qualcuno l’aveva piratato su internet dieci anni fa, ma Toy sarà pubblicato a fine novembre nel cofanetto David Bowie 5 – Brilliant Adventure (1992- 2001) e poi a gennaio in versione deluxe.
Toy propone brani decisivi ma poco noti, o inediti, di quel decennio cruciale per David. Tutti riarrangiati e registrati di nuovo vent’anni fa. Doveva uscire a caldo, ma la casa discografica tentennò: c’era stato un flop di Mariah Carey che invitava alla prudenza, e Toy restò nei magazzini.
Lui ci restò male?
Ruppe con la Emi/Virgin, ma se era deluso non lo diede a vedere. Si concentrava costantemente sulla mossa successiva, curioso come un bambino.
Lei, Mark, ha lavorato con tanti big. Dai Fleetwood Mac ai Talking Heads, dai Bee Gees a Janet Jackson. Chi aveva quel tipo di spiazzante energia?
Prince. Non dormiva mai. Quando collaborai con lui a Graffiti Bridge, nel 1990, era impegnato sulla colonna sonora, sul film, sulle prove per il tour. Nessuno riusciva a stargli dietro, neppure io che ero molto giovane. Bruciava inquietudine e genialità a ogni istante. Aggiungerei Robert Smith dei Cure.
Chissà quanti ne avrà visti di miti, Mark, al fianco di Bowie.
Una sera David chiacchierava con Mick Jagger nei camerini, un’altra con Paul McCartney o Pete Townshend degli Who. Ma c’era poco da origliare. Sembravano persone normali, non rubavi scoop. Erano conversazioni tipo: “Come hai costruito quel ritornello?”.
Nel ’97 eravate al Madison Square Garden per il live del cinquantesimo compleanno di David.
Quella sera ci fu l’unico storico duetto dal vivo tra Bowie e Lou Reed. Suonarono Queen Bitch e I’m waiting for my man. Ma ero troppo preso a lavorare, non mi gustai l’evento.
Avrà saputo rifarsi…
Un anno prima ero a Berlino per mixare un album, David era in cartellone in un festival tedesco. Presi un treno e arrivai nel backstage. Restai a bocca aperta vedendo Iggy Pop. Peccato non fosse il tempo degli smartphone.
Bowie è morto nel 2016, poche ore dopo l’uscita del suo ultimo album Blackstar. Una coincidenza che parve quasi orchestrata…
Non lo vedevo da tempo. Quando uscì la notizia chiamai l’ufficio sperando fosse una bufala. Aveva tenuta nascosta a quasi tutti la sua malattia. Sembra davvero la perfetta uscita di scena di un maestro dell’arte come lui. Un alieno tornato nei suoi mondi.