il Fatto Quotidiano, 15 ottobre 2021
Il fiuto di Montanelli
“Ci troverai parole che non hai pronunciato, ma che il mio fiutaccio, del quale incondizionatamente mi fido, mi dice che avresti potuto pronunziare”. Così Indro Montanelli a Emilio Cecchi, nella lettera in cui gli anticipa l’Incontro che sarà pubblicato sul Corriere della Sera, citata in Indro – Il 900 (Rizzoli), il volume in cui Marco Travaglio ricostruisce la traversata nel secolo, ostinatamente controcorrente, del più grande giornalista italiano. Le stagioni della nostra storia, i brani antologizzati e le immagini del volume sprigionano nostalgia non solo per l’uomo, ma anche per cosa è stato il giornalismo nel secolo scorso. Gli Incontri sono grande giornalismo e al tempo stesso un genere letterario, letture capaci di insinuare che la famosa realtà non è sempre così reale come lascia intendere: “Preferisco scrivere un ritratto vero con aneddoti falsi che un ritratto falso con aneddoti veri”.
Il vero va fiutato. E qui torniamo a ciò di cui Indro si fidava sopra ogni cosa, come il suo maestro Leo Longanesi.
A vent’anni dalla scomparsa, la figura di Montanelli più si allontana e più si ingigantisce, e quel che ci manca di più è proprio il naso. L’olfatto si sperde nell’interconnesso, insonorizzato mondo digitale, tra i ron ron dei processori, i clic, i tic e i like delle tastiere, negli ambienti sterili gestiti dai capi della comunicazione che mescolano vero e falso in provetta, dove le “bestie” mordono in silenzio, dove i sensi non sono meno artificiali dell’intelligenza. Ci sarà anche il fact checking, ci saranno anche i cacciatori di fake news, ma noi continuiamo a sentire la mancanza delle mucose e delle narici. Forse il sempre più nutrito partito del non voto si spiega anche così, con la nostalgia del fiutaccio montanelliano, specie quando si tratta di entrare nella cabina elettorale, e gli effluvi esplodono. Troppi miasmi, non si sa bene come e dove prodotti. All’improvviso ci ricordiamo di avere un naso, ma anche turarselo non basta più.