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 2021  settembre 17 Venerdì calendario

Lunga e bella intervista a Sabino Cassese

Sabino Cassese alle nove del mattino è in giacca e cravatta. Tutto è al suo posto nello studio ai Parioli tappezzato di ventimila libri. L’ultimo che ha scritto lui esce ora: Intellettuali, edito dal Mulino. Quando sulla scrivania sposto un orologio e un portamatite per fargli un ritratto fotografico il professore li riposiziona immediatamente nello stesso punto. È il metodo che usa da decenni per spiegare la complessità italiana: dare un ordine al disordine. Ma nulla sembra angustiarlo di più del caos nel quale è sprofondata la città di Roma.
Lei a scuola era il primo della classe?
«No, studiai al Tasso di Salerno, ero tra quelli bravi e saltai la terza liceo. Occorreva avere la media dell’otto. Mi diplomai a 17 anni e feci il concorso per entrare alla Normale di Pisa. Per la facoltà di legge c’erano sei posti. Fui tra i vincitori».
Qual era la sua ambizione?
«Diventare professore universitario».
Perché saltò l’ultimo anno?
«A casa mia prevaleva l’idea che occorresse spicciarsi e io volevo essere indipendente».
Che famiglia era la sua?
«Mio padre dirigeva l’Archivio di Stato, mia madre era insegnante. Non navigavamo nell’oro, andavo in giro con giacche rivoltate: avevano il taschino a destra».
Che mondo era quello della Normale nei primi anni Cinquanta?
«Nella sala da pranzo i camerieri servivano i pasti con i guanti bianchi. Bisognava avere la media del 27 e nessun voto sotto il 24. Non avevo tutti 30. Del resto, come professore non ho mai apprezzato quelli che ottengono il massimo a tutti gli esami».
Come mai?
«Perché significa non avere amori e odi. E non si possono amare tutte le materie allo stesso modo. Uno studente che non ha tutti trenta dimostra che sa fare delle scelte».
Cosa ricorda di Pisa?
«In quattro anni non entrai mai nella casa di un pisano. Anni dopo, passeggiando per la città con Carlo Azeglio Ciampi e Antonio Maccanico, che vi avevano studiato negli anni Trenta e Quaranta, convenimmo che era stato un bellissimo posto molto triste».
Quando si è laureato?
«A ventun anni, nel 1956. Vinsi una borsa di studio dell’Istituto Sturzo per andare negli Stati Uniti. Don Luigi Sturzo mi telefonò, intendeva conoscermi. Mi presentai nel suo alloggio alle Canossiane, sull’Aurelia, mi ricevette nella stanza da letto».
Che tipo era Sturzo? 
«Trasmetteva un’idea di fragilità: “Non darmi la mano perché mi fa male”, disse. Era paterno e severo. Fuori dalla stanza i maggiorenti democristiani facevano la fila per parlargli».
Nacque un rapporto? 
«Sì, durato tre anni, durante i quali scrissi sulla rivista che dirigeva, Sociologia, anche se poco dopo lo tradii»
In che senso?
«Andai a lavorare all’Eni di Enrico Mattei, che era il grande nemico di Sturzo. Il mio primo stipendio, a ventidue anni, era di 110 mila lire: più di quanto prendeva mio padre. A venticinque anni dirigevo l’Ufficio studi e legislativo dell’Eni».
Che consigli dà a un giovane di talento?
«Di non farsi prendere dalle passioni dal fuoco fatuo. E poi di avere culo».
Fortuna?
«No, nel senso di metterlo sulla sedia, di studiare applicandosi con costanza».
Oggi i predestinati emigrano.
«Una volta si viveva molto peggio, ma il futuro era più roseo. Oggi si vive molto meglio, però l’orizzonte è più oscuro».
Cosa ci è accaduto?
«Abbiamo il miracolo economico alle spalle».
Che idea si è fatto della scuola di oggi?
«Ai miei tempi era un insieme di dottrina e di sistemi, adesso molti più problemi e interrogativi. Gli studenti infatti pongono più domande, anche perché vivono un tempo incerto».
Lei non ha mai smesso di studiare?
«Ho orari da metalmeccanico. Lavoro otto ore al giorno, domeniche incluse».
Anche in vacanza?
«Non faccio vacanze. Nella casa al mare ho una stanza studio».
Non è eccessivo? 
«Svolgo un lavoro che mi piace».
Sua moglie Rita Perez che dice?
«Fa una vita simile alla mia, ognuno ha il suo studio anche in villeggiatura. Ha appena pubblicato un libro sulla Ragioneria dello Stato. Però poi, qualche volta, lei va al cinema e io no».
Da quanti anni è sposato? 
«Da 58 anni. Abbiamo due figli, Elisabetta, 52 anni, lavora in Banca d’Italia. Matteo, 44 anni, vive a Berlino. Ha lavorato per Poste Italiane, Warner Bros e Netflix. Ora si occupa di comunicazione e produttività per imprese innovative».
Cosa ha capito del matrimonio?
«È un lungo viaggio che richiede di capire il proprio cambiamento e il cambiamento dell’altro».
Quante lingue parla?
«Bene l’inglese e il francese, conosco il tedesco e lo spagnolo. Ho tenuto per anni lezioni in Argentina».
Il declino degli intellettuali è figlio dell’odio verso le competenze?
«È il frutto di un nuovo bisogno di eguaglianza e di anti-elitismo. Ma nasce anche dall’ignoranza del ruolo egualitario svolto dalle scuole di élite».
Come definirebbe il discorso pubblico italiano?
«Teatrale e gladiatorio, moraleggiante invece che programmante».
Perché nel suo libro non cita mai Pasolini e Sciascia?
«I loro nomi c’erano, insieme con molti altri, ma ho poi deciso di limitare gli elenchi degli intellettuali, nel timore di dimenticarne qualcuno».
All’impoverimento delle idee quanto vi ha contribuito Beppe Grillo?
«Molto. Ho avuto una polemica con lui, sull’uno vale uno. Gli chiesi: “Ma se lei ha un rubinetto che perde chiama un falegname?” “E se ha un tavolo traballante telefona a un idraulico?” Non seppe rispondermi».
Il populismo è in declino?
«Sì, la gente sta cominciando a capire».
I politici di una volta erano migliori?
«Ho collaborato con Antonio Giolitti, Giorgio Napolitano, Francesco Cossiga, Ciriaco De Mita. Ho conosciuto Amintore Fanfani e Giulio Andreotti. Giolitti ha tradotto Max Weber, gli altri erano professori o avevano fatto studi severi. Lavoravano molto. Cossiga mi chiamava alle 6,30 del mattino. Oggi se hanno la laurea è già grasso che cola».
Cosa ha capito di noi italiani?
«Ci è mancata la riforma protestante. Questa ha dato un’impronta al capitalismo. Ha fatto funzionare lo Stato. Dalla riforma nasce l’idea di Beruf, la professione come funzione e anche vocazione o missione».
Draghi finora l’ha convinta?
«Si sta ripetendo il miracolo Ciampi. La fiducia di cui gode all’estero si riflette all’interno. Lo stile di governo, pragmatico, taglia la strada agli ideologismi e alle scaramucce. Mille esercizi di politica all’italiana non otterrebbero lo stesso risultato».
Draghi deve rimanere a palazzo Chigi o farsi eleggere al Quirinale?
«Palazzo Chigi. Il Quirinale è una fisarmonica, ma più di tanto non si può ampliare».
E quindi lei è un per un bis di Mattarella?
«Possono esserci anche altre soluzioni».
Come giudica il suo settennato?
«Penso che sia riuscito a coniugare bene una presidenza in stile Einaudi con iniziative in stile Napolitano».
Come spiega il fenomeno dei No Vax?
«Fino al Settecento si credeva alle streghe. Gian Carlo Blangiardo, eminente demografo che presiede l’Istat, ha calcolato che negli ultimi settant’anni la vita media è aumentata di più di 18 anni per le donne e di più di 17 per gli uomini, anche grazie ai vaccini. Mio padre ebbe sette fratelli, ma solo in tre sono sopravvissuti alle malattie per cui oggi i bambini vengono immunizzati obbligatoriamente».
Sta sui social?
«Ricevo ogni giorno trecento mail, e a cento mi tocca rispondere. Ogni pezzo che scrivo mi procura almeno quattro telefonate e cinque messaggi. Non ho tempo per i social».
I suoi pezzi sul Foglio sono piccole lezioni. Qual è il metodo?
«Leggo sul tablet quattro giornali, più diverse rassegne stampa. E poi ho la mia biblioteca. La mia idea è di fare dell’insegnamento in pubblico».
Perché è così assiduo in televisione?
«M’invitano. Ho l’ambizione di parlare a un pubblico più vasto dei miei studenti, documentando, spiegando, ragionando. Penso che sia un servizio utile».
La tv le ha dato notorietà?
«Cosa vuole che sia alla mia età: ho 86 anni. Consideri che spesso vengo fermato per strada da ex studenti che mi ricordano che sono stato il loro professore. Insegno dal 1961».
Per chi voterà a Roma?
«Roma sta morendo. Le strade sono in totale abbandono. Nella via qui sotto crescono gli alberi sui marciapiedi. Un’altra è chiusa da due anni. E il secondo municipio è amministrato dal Pd, non da Raggi. Serve una scopa nuova».
E chi sarebbe? Calenda?
«Lascio a lei le conclusioni».
Anche Raggi era il nuovo, cinque anni fa.
«Nello stato in cui versa la città servirebbero tre generali di corpo d’armata, delle tre forze, a cui affidare la città per i prossimi dieci anni».
Tipo Figliuolo?
«Tre Figliuolo».
Vuole una giunta militare?
«È il minimo».
Non me lo sarei mai aspettato da lei.
«Serve una cura radicale. Siamo circondati da cacciatori di farfalle».