Il Sole 24 Ore, 19 settembre 2021
Giuseppe Verdi censurato
C’è un’immagine, celeberrima, che illustra meglio di mille parole i rapporti tra Verdi e la censura: la caricatura in cui Melchiorre Delfico ritrae il compositore che ascolta cocciuto, irremovibile, braccia conserte, testa inclinata, naso e mento perpendicolari al suolo, folta chioma leonina e ciuffo sbarazzino, lo sguardo a fissare implacabile il suo interlocutore, il malcapitato poeta teatrale Domenico Bolognese che per contro si dimena sinuoso tentando di far digerire al maestro la versione stravolta del libretto d’Un ballo in maschera. “Lettura degli accomodi”, recita la didascalia: non vi è però nulla di accomodante in Verdi, il cui linguaggio del corpo Delfico avrà plausibilmente ritratto dal vivo in quell’inverno napoletano in cui si consumò, con conseguenze imprevedibili e decisive, l’atto culminante d’uno stato di guerra permanente.
Per gli operisti italiani dell’Ottocento il confronto con gli apparati di polizia degli Stati preunitari, comprensibilmente guardinghi verso un’arte in cui, per dirla con Carlo Tenca, «l’armonia tra la moltitudine e l’artista è intera e immediata», era pane quotidiano. Li soccorrevano i librettisti, che provvedevano preventivamente a filtrare soggetti, smussare asprezze e aggirare criticità per evitare a loro stessi e allo spettacolo seccature eccessive. E tuttavia era inevitabile che riferimenti religiosi avvertiti come fuori luogo, atteggiamenti offensivi della morale corrente, implicazioni politiche problematiche balzassero comunque all’occhio del censore, specialmente nei soggetti drammatici più interessanti e innovativi: proprio quelli su cui si appuntava l’attenzione di Verdi, proteso al nuovo come pochi altri intellettuali italiani dell’Ottocento.
Per una o per l’altra di queste ragioni alcuni titoli ebbero vita difficilissima (L a battaglia di Legnano), molti furono ribattezzati in camuffamenti fantasiosi (la mistica Giovanna d’Arco diventata Orietta di Lesbo, gli spinosi Vespri siciliani ammanniti come Giovanna de Guzman o Batilde di Turenna), mentre lo scetticismo sulle probabilità di sopravvivenza dello scabroso Stiffelio indussero l’autore stesso a ritirare l’opera e riscriverla nei panni del laico Aroldo. A questo teatrino di travestimenti Verdi non pensò mai minimamente di piegarsi, per ragioni squisitamente estetiche che investono la libertà stessa dell’arte e la necessità di scegliere determinati elementi dello spettacolo per trasmettere il messaggio caro all’autore. Lo affermerà forte e chiaro sbottando contro lo sfregio subìto dalla Traviata a Roma nel 1854: «La censura ha guastato il senso del dramma. Han fatto la Traviata pura ed innocente. Tante grazie! Così han guastato tutte le posizioni e tutti i caratteri. Una puttana deve essere sempre puttana. Se nella notte splendesse il sole non vi sarebbe più notte». La difesa a piè fermo delle ragioni drammatiche del Rigoletto attaccato dal governatore di Venezia portò nel dicembre 1850 a un passo dal ritiro dell’opera, se La Fenice, dove Verdi era venerato, non fosse riuscita in extremis a scongiurare il peggio.
Diversamente andarono le cose a Napoli all’altro capo di quello stesso decennio, quando il Gustavo III – reo di rappresentare l’assassinio d’un sovrano regnante durante un ballo in maschera, per di più ispirato a una vicenda reale – che Verdi ha già ultimato entro il gennaio 1858, è costretto dalla censura borbonica, in questo caso (ed è il dettaglio dirimente) assecondata dalla direzione del Teatro di San Carlo, ad attraversare un tunnel senza fine di «accomodi». Diventa così Una vendetta in domino, poi Adelia degli Adimari («degli Animali», ironizzerà Verdi), mutando ogni volta ambientazione e caratteri, finché la faccenda non finisce in tribunale. Ritirata da Napoli, l’opera vedrà la luce a Roma come Un ballo in maschera, nella forma comunemente in scena, ammessa, dopo trattativa serrata, da una meno ostile censura papalina. A Parma quest’anno la si vedrà invece come Verdi avrebbe voluto proporla al pubblico romano, fissata dall’edizione critica curata da Ilaria Narici, con il titolo originario di Gustavo III e l’ambientazione a Göteborg nel 1760. Lo spettatore potrà, per così dire, sollevare quello strato di incrostazioni censorie che, quand’anche non sfigurano l’opera d’arte, le impongono tuttavia una tinta che l’autore di per sé non avrebbe mai desiderato. È insomma un po’ come asportare dagli affreschi della Cappella Sistina la patina di resine e colle che impediva di apprezzare la bellezza dei colori.