Il Sole 24 Ore, 19 settembre 2021
Lord Byron amante di belle veneziane
Era notte quando, l’11 novembre 1816, George Gordon Byron entrò nella laguna su una gondola. Non esiste un diario del periodo veneziano; quello di Byron si ferma alla fine del periodo svizzero e ricomincia con il periodo ravennate. La felicità non ha bisogno di appunti, bastano queste magnifiche lettere di una libertà assoluta. Chi l’aveva conosciuto in Inghilterra cupo e tormentato restava stupito di trovarlo allegro e soddisfatto. «Venezia mi piace quanto me l’aspettavo, e mi aspettavo molto». Era attutita l’eco dello scandalo sollevato dal suo incesto con la sorellastra, madre di una sua figlia, e dalla fine, dopo appena un anno, del suo matrimonio.
I veneziani non sapevano che l’«inglese pazzo», come lo chiamavano, non era solo un ricco lord, ma un mito vivente e un genio precoce. Presto, però, si accorsero che l’appetito sessuale di Byron era inesauribile. Sulla laguna, l’infedeltà era universale e Byron era bellissimo e pronto a sedurre chiunque usando la fama o il denaro. Una dama con un solo amante veniva considerata una donna perbene. «I mariti naturalmente appartengono alla moglie di chiunque – tranne che alla propria».
Pochi giorni dopo il suo arrivo aveva incontrato la sua prima amante, Marianna, moglie del tappezziere che gli affittava un sontuoso appartamento. Aveva ventidue anni, sei meno del suo amante, che la trovava bellissima e divertente, anche se era meno ingenua di quel che sembrava. Infatti non era stato, come si illudeva, il suo primo amante e la ragazza era nota per la sua avidità, ma era sempre a disposizione – «Posso fare all’amore con lei a qualsiasi ora» – e cantava benissimo. Presto però erano venuti a galla il suo carattere tirannico e una feroce gelosia, che obbligava Byron a una serie di sotterfugi.
Frequentava Isabella Teotochi Albrizzi, la madame de Staël veneziana, «desiderosa di omaggi, non più giovane, ma molto colta, simpatica e senza la minima affettazione, molto gentile con gli stranieri e, credo, non molto dissoluta come invece la maggior parte delle donne». Ma in fondo preferiva la piccante compagnia delle popolane.
Aveva partecipato al celebre carnevale culminato nel ballo mascherato alla Fenice, «il più bel teatro che abbia mai visto». Stremato dalle dissolutezze, si era preso una terribile febbre e Marianna l’aveva amorosamente curato. Indispettito dalla scoperta che l’amante aveva venduto i suoi preziosi regali, Byron glieli aveva ricomprati, ma il loro legame stava declinando. Durante l’estate, galoppando sul Brenta, aveva incontrato due ragazze. Margherita, la più vivace, si era subito dichiarata pronta a fare all’amore «perché era sposata», anche se il marito era molto geloso. Presto aveva cominciato a vivere con quell’«animale magnifico e indomabile», sempre pronta a passare dal riso al pianto. Ma aveva mantenuto una casa per le numerose amanti occasionali con grande stupore dell’amico Percy Bysshe Shelley, che trovava le italiane spregevoli, sporche e bigotte.
Dopo un’iniziale aridità, il periodo veneziano si stava rivelando inaspettatamente fertile. Lì scrisse Mazeppa e iniziò il Don Giovanni, in cui usciva dal suo ruolo di bel tenebroso per assumere quello ben più realistico di seduttore passivo.
Non di rado la sera tornava a nuoto dai salotti facendosi illuminare dalla torcia di Titta, il suo gondoliere. Più di dieci camerieri ronzavano nel palazzo, dove Shelley contò anche «otto enormi cani, tre scimmie, cinque gatti, un’aquila, un corvo e un falco... cinque pavoni, due galline e una gru».
Sullo sfondo della bellezza decadente della città diventava sempre più profonda in Byron la consapevolezza della sua estraneità all’Inghilterra. Soffriva però della lontananza delle sue figlie; odiava l’inflessibile lady Byron che, inasprita dalle sue infedeltà, si dava da fare per allontanarlo dalla sua bambina. Alla fine però anche i capricci di Margherita avevano stufato Byron, che l’aveva faticosamente messa alla porta. La ragazza infatti, prima di rassegnarsi, aveva più volte minacciato il suicidio, arrivando a ferirsi e a buttarsi in acqua.
Un nuovo amore aspettava il giovane lord, la contessa Teresa Guiccioli, una formosa diciannovenne sposata a un sessantenne di Ravenna, prima riluttante e poi connivente. «È deliziosa, ma è priva di tatto. Quando le sussurro all’orecchio, risponde a voce alta. Stasera ha fatto scandalo a palazzo Benzon chiamandomi a gran voce “Il mio Byron”».
Ma la fedeltà di Byron andava soprattutto a se stesso. Facendo i conti sulla sua vertiginosa attività con le veneziane, poteva dire di averne avute «almeno duecento di un tipo o dell’altro – forse di più – perché ultimamente ho smesso di tenerne il conto… alcune nobili -alcune borghesi – alcune di ceto basso – e tutte puttane... Le ho avute tutte».
Nell’estate del 1819, risalì sull’imponente carrozza, costruita sul modello di quella di un suo mito, Napoleone. Stava seguendo la Guiccioli a Ravenna. Gli piaceva pensare di esserne innamorato: e forse lo era davvero.