Il Sole 24 Ore, 19 settembre 2021
Bamiyan, l’Afghanistan che non potrà più esistere
C’è un cuore pulsante al centro dell’Afghanistan che porta due grandi ferite. Due enormi nicchie vuote, dove per 1.700 anni stavano due monumentali Buddha, distrutti dai talebani a colpi di dinamite e di cannone. Era il 2001, precisamente marzo, il mese in cui gli eventi iniziarono a precipitare fino al 9 settembre, con l’assassinio del comandante Massoud, eroe anti-talebano, e l’assalto alle torri gemelle di New York, seguiti dall’invasione americana dell’Afghanistan il 7 ottobre. Fu il culmine delle distruzioni in un Paese martoriato da 20 anni di guerre, prima contro i russi e poi tra afghani. Bamiyan, la cittadina dei Buddha che dà il nome all’omonima provincia, aveva molto sofferto, a causa di una dura repressione. Gli estremisti sunniti telebani, al potere dal 1996, vedevano negli hazara, l’etnia di origine mongola e fede sciita che abitano quelle valli, come idolatri infedeli. La resistenza che avevano opposto all’occupazione aveva acuito la ferocia dei loro carnefici, che avevano trucidato migliaia di persone.
La sorte ha voluto che quel cuore abbia ripreso a pulsare presto, facendo di quegli altipiani dai tratti lunari tra i monti del Hindu Kush un modello di sviluppo per l’intero Paese. Un fiore all’occhiello, frutto di un’avventura entusiasmante, a cui il sottoscritto ha partecipato nel campo dell’educazione, operando a fianco di gente straordinaria, che, nell’arco di vent’anni, è riuscita a trasformare la regione più povera del Paese più povero dell’emisfero nord del pianeta, in un modello di crescita sostenibile.
Una storia avvincente, con vari protagonisti, grandi e piccoli, tra cui molti stranieri, che si sono intrecciati in un florido tessuto connettivo costruendolo, con poche risorse, dal basso all’alto. Un luogo d’incontro tra enti governativi, tra cui il Governo italiano, ONG straniere e locali e piccole charity di eroi romantici in cui ognuno, come in una coltura batterica, ha contribuito alla salute generale.
Malgrado la regione ricevesse da Kabul poche decine di milioni di dollari di sussidi rispetto alle centinaia di altre province non hazara, il successo è stato grande. Tre elementi hanno favorito l’esperimento, rispetto ad altre regioni: la stabilità politica, la bellezza dei luoghi, unici al mondo, e una cultura che permette alle donne maggiore emancipazione rispetto al resto del Paese. Nel primo caso, la pulizia etnica seguita alla caduta dei talebani, con la partenza di molti esponenti di etnia pashtun e tagiki che militavano nelle loro file, ha consolidato la predominanza hazara sulla regione (che si allarga alle province di Daikundi e parte di Ghor) riducendo quasi a zero i rischi alla sicurezza.
L’emancipazione femminile ha permesso a molte donne di partecipare al mondo del lavoro ed educarsi più rapidamente. La prima e unica governatrice di una provincia afghana, Habiba Sarabi, ha impresso tra il 2005 e 2013 un segno indelebile in termini di operosità e onestà che ha permesso ai suoi successori di massimizzare le poche risorse disponibili. La bellezza infine, tra patrimonio artistico e naturale, come i leggendari laghi turchesi di Band e Amir, avevano permesso negli ultimi anni il decollo di un turismo interno, portando decine di migliaia di afghani a godere dei luoghi, complice la creazione di un parco naturale attorno ai laghi.
Le valli brulle e desolate, disseminate di residuati bellici, con decine di villaggi distrutti e bruciati, tra campi abbandonati e strade di terra interrotte che avevo visitato la prima volta nel 2004, per non parlare del centro martoriato di Bamiyan, sono ormai storia. I campi sono rigogliosi e ordinati, gli aratri in legno hanno ceduto il passo a trattori in zone più ricche e fertili come la valle di Folady. Le irrigazioni si moltiplicano. Le mandrie di mucche brulicano nelle valli più basse del distretto di Yakawlang.
Nell’agricoltura, l’impulso delle fondazioni dell’Aga Khan è stato determinante. Costruendo l’economia dal basso, permettendo prima lo sviluppo agricolo e poi la creazione di plusvalore da commerciare, gli aiuti sono giunti per costruire magazzini in muratura per conservare le patate che in quelle valli sono di ottima qualità e vendute in tutto il Paese e perfino esportate in Pakistan. Sempre l’Aga Khan ha finanziato un ospedale modernissimo, che ha migliorato notevolmente la qualità della vita.
Il piccolo e vecchio Bamiyan Hotel, unico albergo dagli anni ’70 è stato affiancato negli ultimi dieci anni da altri grandi 6 resorts moderni. I coreani hanno costruito oltre 100 km di strade asfaltate tra Bamiyan e Yakawlang, mentre gli italiani hanno sostenuto lo sviluppo della circonvallazione dal nuovo bazaar che sta crescendo a vista d’occhio, attorno al centro storico, oltre ad aver realizzato la strada che collega Bamiyan con Kabul via Hajigak pass (3500m) e Maidan Shahr. Un gioiello di ingegneria civile.
L’aeroporto, una volta in terra battuta, è ora in asfalto e raddoppiato. Il quartiere residenziale contiguo è in piena espansione. Le filiali delle quattro grandi banche afghane sono presenti e una ONG inglese, Turquoise Mountain, che opera nel rilancio dell’artigianato tradizionale, si appresta a restaurare un caravanserraglio del 1600. Gli italiani hanno fatto un lavoro egregio nel restauro, tramite l’Unesco, di Gholgola, nota come “la città delle grida”, distrutta nel 1221 da Gengis Khan. Attorno ai Buddha ferve l’attività di archeologi giapponesi, tedeschi e italiani. Non va dimenticato che Bamiyan era uno degli snodi della Via della Seta, e prima ancora un centro di passaggio di commerci tra Europa e India dai tempi di Alessandro Magno. Un centro culturale modernissimo che testimonia le meraviglie della regione è stato costruito sulla collina antistante ai Buddha da giovani architetti argentini.
La quiete e stabilità della regione ha attirato ONG in progetti di artigianato (tappeti e ricami) e sostegni al mondo della musica, dove si sono formati vari gruppi canori con gli strumenti tradizionali (dambura, harmonium e tabla). Oltre a intrattenimento per bambini, grazie all’iniziativa dell’Afghan Mobile Mini Circus for Children creato da Berit e David Mason, due ex giornalisti (lei danese lui inglese) che insegnano ai piccoli di strada l’arte dei giocolieri. Forse il sogno più selvaggio è stato Alpistan, una charity fondata da Nando Rollando, compianta guida di Courmayeur morto tragicamente sul Monte Bianco, che aveva insegnato a sciare agli afghani. Iniziativa il cui testimone è stato ripreso dallo svizzero Bamiyan Ski Club. Infine, era nato 5 anni fa un club ciclistico, la cui entusiasta divisione femminile era diventata una leggenda nel Paese.
Non avendo agguerrite milizie come i pashtun, tagiki e uzbeki, gli hazara hanno puntato le carte sull’educazione, con evidente successo, dati i loro progressi nella macchina del Governo, media e università. Gli americani hanno finanziato nel 2004 un’università a Bamiyan (geologia, economia, turismo) e le scuole si sono moltiplicate, anche con il piccolo contributo della nostra charity Arghosha Faraway Schools che, con l’aiuto della NGO locale Shuhada, ha finanziato 15 edifici per 7mila studenti (5.500 ragazze) dalle elementari al liceo.
Finora ho parlato al presente e mi piacerebbe poter proseguire. Il timore è che questo piccolo miracolo si sia concluso con l’arrivo dei talebani. Costoro odiano la musica, lo sport, il turismo, specie se straniero, i giochi, l’arte umanistica. In pratica tutto quello che può essere definito il core business di Bamiyan. Mi risulta che molti amici e amiche siano scappati a Kabul perché non si sentono protetti nelle campagne.
Il bazaar di Bamiyan è semideserto, dato che le donne stanno a casa. Le cicliste hanno distrutto le bici, i musicisti si sono sciolti, gli alberghi sono vuoti, gli sci sepolti sottoterra e l’aeroporto chiuso, come pure le banche. Il gelido inverno polare dell’Hindu Kush è arrivato con tre mesi di anticipo. Il cuore dell’Afghanistan si è messo a rallentare. Le scuole restano aperte, anche se le ragazze sono sottoposte a restrizioni di età. Le nostre funzionano ancora. Ma avanzano a rilento. Non ci resta che attendere e sperare.