il Fatto Quotidiano, 19 settembre 2021
Biografia di Paolo Pierobon raccontata da lui stesso
“P” come uomo pratico. “È l’intervista della domenica?”. Sì. “Allora sono due pagine”. Ancora sì. “Quindi le posso raccontare di quando da bambino sono stato un migrante al contrario: dal Veneto sono finito per sei anni in Basilicata”.
“P” come palco. “In carriera ho partecipato a circa 80 tournée. E solo a causa del Covid ho dedicato maggiore attenzione al cinema”.
“P” come pallone. “Da ragazzo sono arrivato in prima categoria; (pausa) proprio su un campo da calcio ho sbagliato una partita di brutto: una figuraccia tale che ancora oggi la soffro”.
“P” come pescatore: per il ruolo da coprotagonista in Welcome Venice, ultimo lavoro di Andrea Segre, presentato proprio alla Mostra di Venezia. Un film crudo, non lezioso, con molte parti in dialetto, recitato secondo i migliori auspici e con la Laguna esaltata da tutti i suoi grigi.
“P” come Paolo Pierobon, 54 anni, attore raro, rientra nella categoria dell’artista a servizio della storia: cambia spesso aspetto, a volte è irriconoscibile, può essere Berlusconi in 1993 e 1994 o Gabriele D’Annunzio nell’altro suo film attualmente nelle sale (Qui rido io di Martone).
L’infanzia, quindi.
Da veneto oriundo o spurio: a differenza della comune narrazione, mio padre, per lavoro, ci portò in Basilicata. Sei anni lì. Ed ero un ultra terrone.
Perché ultra?
Già i veneti vengono considerati i terroni del Nord, poi si aggiungevano i sei anni al Sud; (pausa) della Basilicata ho un ricordo meraviglioso: ogni immagine di allora è incastonata nel cielo azzurro; il problema è che vivevamo nel villaggio aziendale, papà lavorava all’Eni, e secondo la politica paternalistica di Mattei l’architettura doveva essere uguale in tutta Italia. Quando siamo finiti a San Donato Milanese ho ritrovato un appartamento identico, solo che aprivo la porta, trovavo la nebbia e qualcuno che mi apostrofava con “pirla”. Non capivo cosa volesse dire.
Stava meglio al Sud.
Sì, però Milano mi ha offerto la possibilità di conoscere e vivere il teatro; al cinema mi sono dedicato per il Covid.
Cioè?
Prima neanche partecipavo ai provini per i ruoli sul grande schermo solo perché avevo assunto altri impegni teatrali; ma dopo sette mesi fermo per la pandemia, ho accettato.
Il cinema è ripartito, il teatro no.
E con degli assurdi: la settimana scorsa ero a Venezia per la Mostra, con i vaporetti pieni di turisti, tutti attaccati, ti alitavano sull’orecchio, poi entravi nelle sale cinematografiche e vedevi i film come in una camera iperbarica.
Il film è ambientato a Venezia.
Girare l’anno scorso non è stato semplice: non c’era nessuno, così siamo stati costretti a piazzare le comparse di spalle, vestirle diversamente, in modo da raddoppiare le presenze; non solo: durante le riprese abbiamo perso diversi pezzi, fino a quando lo stesso Segre si è ammalato di Covid e ci ha diretto in “smart regia”.
Smart regia è una formula ancora sconosciuta…
(Ride) Potevamo smadonnare e sbuffare in perfetto veneziano senza essere visti da lui; (ride ancora) in giro dico sempre che le scene più belle del film sono quelle non dirette da Segre.
Siete amici da anni.
Sì, per questo mi permetto certe esasperazioni; c’era il suo aiuto regista che girava per il set con in mano l’ipad e Andrea collegato da casa, solo che spesso, nel casino delle riprese, mollava l’ipad su una sedia rivolto verso il cielo: Segre parlava, urlava, ma nessuno se ne accorgeva.
A quante tournée ha partecipato?
Tantissime, da quando ho iniziato credo di aver toccato gli 80 spettacoli; per anni sono sempre stato in giro, ospitato tra alberghi e case di colleghi; le case si sfruttano in modo da risparmiare sulla diaria.
Lavia fa teatro per il post spettacolo…
È una liturgia del passato, quando ci si distruggeva a tavola fino alle tre del mattino tra vino, cibo e aneddoti. Oggi molto meno. Oggi siamo tutti più dietetici, vince la zuppetta di verdure sennò s’ingrassa e altre amarezze.
Perché il teatro?
Ho capito molto presto che amavo esibirmi: ho iniziato con gli spettacoli di strada e le compagnie dialettali, poi mi sono iscritto alla “Paolo Grassi”; (pausa) parte tutto da un certo esibizionismo.
Anche a scuola?
Eccome, cercavo di stare al centro dell’attenzione, però al tempo stesso ero un tipo riservato: per questo le mie manifestazioni erano quasi sempre estreme, non riuscivo a calibrarmi.
Serviva anche per le ragazze?
(Sospiro) Il fine era quello; tra noi c’è un antico dilemma: si fa l’attore per scopare o si scopa per fare gli attori? Rientro nel primo gruppo.
Artista di strada.
Per un anno e mezzo sono stato una sfinge da marciapiede.
La sfinge cosa pensa mentre è sfinge?
Innanzitutto resiste ed è un grande punto di osservazione: già sapevo chi mi avrebbe dato soldi e chi no; chi mi avrebbe rotto e chi passava con indifferenza.
Quali erano i segnali?
Lo capivo da lontano: chi si fermava un secondo spesso si fregava nelle tasche e veniva dritto al piattino; mentre c’era chi mi girava attorno o si nascondeva dietro di me per sgamare un mio movimento; altri si piazzavano davanti e rompevano le palle con domande o provocazioni: “Ma non hai una casa?”; “Ma non ti vergogni?”.
Non si ribellava?
Solo una volta: un tizio mi ha spinto, a quel punto non ho resistito e ho reagito con un calcetto assestato con un paio di camperos anni Ottanta. È scappato terrorizzato.
Una scuola di vita.
Enorme. Di ascolto di se stessi, di concentrazione, di pazienza e, appunto, di osservazione.
La sfinge si sarebbe immaginata tale carriera?
No, però c’era il sogno.
Lillo ci ha raccontato: “Questo lavoro l’avrei fatto pure gratis perché non so fare altro nella vita”.
(Resta in silenzio) Eh, è vero (sorride). Grazie al film ho imparato a pescare le moeche; (cambia tono) comunque potrei riprendere con i lavori di quando ero ragazzo: il cameriere o il rappresentante della Treccani, soprattutto, da rappresentante, sono stato pettinato dagli insulti.
Come mai?
Era impossibile completare la Treccani; quando citofonavo di frequente trovavo i clienti esasperati, neanche mi aprivano la porta, oppure mi mostravano le librerie con i volumi posizionati e partiva la lamentela: “Ho iniziato con mio figlio piccolo, ora è sposato. Che ci faccio?”; ah, posso stare su un’ambulanza: ci ho lavorato per tre anni e mezzo.
Tutti lavori a contatto con gli altri.
Con l’ambulanza ho vissuto il carattere delle persone in situazioni cruciali, i conflitti e le contraddizioni: venivi accolto in un mondo estremo e ho incamerato emozioni e immagini che ancora oggi utilizzo per il lavoro d’attore.
È uno degli attori più cangianti, difficile riconoscerla.
Cerco sempre di togliere me stesso. Tanto poi ritorna. Ed è bello così.
Fa fatica a tornare?
No, ormai è un automatismo; (pausa) un margine di lucidità va sempre mantenuto, una parte di te deve sapere cosa sta accadendo per comprendere il contesto.
A cosa ha rinunciato?
È un lavoro che dà molta solitudine, pure logistica: l’occasione per conoscere e parlare è la sera, mentre io la sera quasi sempre lavoro; (pausa) sia ben chiaro: al mondo c’è di peggio, nessuno ci obbliga e non rientro neanche nei “walking actor”, gli attori non proprio riconosciuti: per loro portare a casa un reddito è un’impresa.
I suoi sono contenti?
Non sono un figlio d’arte, all’inizio temevano la mia rovina così, per evitare inevitabili pressioni, per anni ho nascosto parte delle mie intenzioni: le selezioni per la “Paolo Grassi” le ho sostenute senza rivelare nulla.
È un ronconiano.
Luca ha rappresentato una sorta di “master in teatro”: con lui ho imparato a leggere, a capire dove l’autore butta armi contundenti e dove si ferma; dove va rispettata la parola scritta otto pagine prima per poi renderla sul palco otto pagine dopo.
Ronconi era celebre pure per l’impegno fisico.
La versione integrale di Lehman Trilogy durava quasi sei ore. Un massacro.
Altro che massacro.
Il teatro è anche fisico. Per uno spettacolo di Nekrošius, ed interpretavo Lenin, mi sono rotto il piede poco prima del debutto. Pensavo di rinunciare. Poi nella mia stanza è arrivato lo stesso Nekrošius: “Così darai qualcosa in più”. Aveva ragione.
Dalla merda nascono i fiori…
(Sorride) Ecco, sarebbe il titolo perfetto.
Ha recitato con Mariangela Melato.
Creatura stupenda: aveva 70 anni ed era sempre bellissima, un’attrice incredibile, in grado di interpretare qualunque ruolo; (cambia tono) con lei ho partecipato alla sua ultima tournée, stava già male, eppure non lasciava spazio alla retorica del dolore o alla compassione: non ho più incontrato una professionista come lei.
Ha appena recitato con Servillo.
Ci ho lavorato quasi da fan e in Qui rido io: è impressionante, ha tirato fuori un qualcosa di animalesco, di suo, di genetico, di restituzione rispetto a tutto quello che ha ricevuto crescendo.
Una sua passione.
Oltre il teatro? Il calcio.
Ci ha giocato?
Sì, ala sinistra con il mito di Pulici e Gigi Riva; poi a volte mi spostavano dietro e da libero ho realizzato uno degli autogol più belli della storia (qui cambia tono, è sofferente, racconta l’autorete in stile telecronaca, ma alla moviola, come per non perdere nessuna briciola di dolore).
Quindi?
Mi sono tuffato di testa e ho infilato la palla all’incrocio dei pali. (Altra pausa). Fosse per me sarei ancora steso per terra per la vergogna.
Non esiste consolazione.
Impossibile. Quella sensazione è sempre viva.
A cosa è scampato?
A una vita noiosa; con il Covid ho vissuto la quotidianità senza la mia vita professionale: ho provato una noia incredibile.
Lei chi è?
Posso rispondere con nome e cognome, di più non so dire.