Perché ha scelto un registro letterario così ambizioso? Si può leggere anche come una sfida rispetto a un panorama narrativo italiano tendente al piatto?
«Erostanco diavere a che farecon i piccoli episodi della nostra vita civica, sociale e famigliare. Si arriva sempre allo stesso punto, che è la pacificazione con se stessi. Per non esserepacificato, ho scelto un tema complicato cheè quello del rapporto generazionale: come sipuò essere padri o nonesserlo del tutto, come si può essere figli. E nell’attraversare questo territorio insidioso non ho avutopaura di attingere a tutto il patrimonioche mi appartiene».
Non ha avuto paura neanche di ammettere un fallimento. Cantor va alla ricerca di un maestro, ma il dottor Romagnoli si sottrae al ruolo di guida. La nostra è stata una generazione che di maestri ne ha incontrati ovunque, ma non è stata in grado di esprimerne.
«Noi abbiamoavuto quelle figure davanti alle quali – è una celebre definizione di Sant’Agostino – non ti senti autorizzato a sederti: devi stare in piedi per reggerne la presenza. Per me lo è statoFranco Fortini. Oggi i ragazzicomeCantornehannouna fame insaziabile. E il mio protagonista cerca di collezionarne parecchi – il pediatra, il comunista, il sacerdote – manon riescea trovarnenessuno.
Perchéilnostro nonèunmondo senza qualità, in realtà di persone capacice nesono tante:ma questi talenti restano isolati. E nel momento in cui non sonopiù isolati diventano capicarismatici. Ma i capi nonhanno nientedella postura magistrale».
Se ne ricava nel dottor Romagnoli un senso di inadeguatezza proprio di una generazione ridotta alla miseria politica o al silenzio. Lui lo confessa attraverso Elias, l’oratorio di Mendelssohn. Non siamo stati all’altezza dei padri.
«Il medico avvolge nella sua cortina di protezioneche èla musica l’impotenzadiuna generazione che non è riuscita a passare il testimone.
Quello cheho voluto rappresentare è unmomentostoricomolto particolare, drammaticamenteteso traduemondi chenon riesconoa separarsi ma neppurea fondersi. Il pensosoRomagnoli, incline a interpretare tutto attraverso le lenti della cultura, e l’irrefrenabile Cantor, ossessionato dal fare ma sostanzialmente disinteressato a comprendere,siamanomolto,ma nonpossono stareinsieme».
L’interruzione nella trasmissione di valori e regole è avvenuta in ogni campo. Lei l’ha vissuto nel lavoro letterario.
«Tra la fine degli anni Ottanta e il principio dei Novanta, gli scrittori italiani hanno voltato le spalle alla tradizione. I modelli di cui sono andati in cerca nonappartenevano piùalla storia letteraria ma alla musica rock. Il rischio però era quello segnalato da DomenicoStarnone, cheper primoha avvertito il pericolo della "letteratura della restaurazione", di un ritorno a un ordine molto antico affidato a valori come l’autonomia dell’arte o a una visione settoriale della professione. Eccoci, siamo noi gli Scrittori, separati dal resto del mondo. Dalla settorialità discendono oggi anche molte autofictiondi cuinon sempresi apprezza l’esito».
E nell’editoria? Lei ha lavorato per vent’anni in via Andegari, in un rapporto molto stretto con Inge Feltrinelli. Oggi collabora con Mondadori.
«Siamo diventati tutti più funzionali.
Anche per l’editoria è tornato il criterio della settorialità. Si lavora magaricongrande competenza,ma rinunciando a sentire dove soffianoi venti: evitiamo di confrontarci con le condizioni metereologiche del civile».
Lei una volta ha lamentato il passaggio dalla società letteraria alla società mediatica, costruita intorno a pochi nomi ricorrenti: in Tv, nelle case editrici, sui giornali.
«Diciamoche l’orientamento d’impresaprevale ovunque, anche nel piccolo editore. Si è portati a fare scelte chefacciano cassa. Ma posso testimoniareche si continua fare ricerca».
Il mondo culturale che lei conosce da vicino viene ritratto nel romanzo in tutta la sua vacuità: ci sono i piagnoni di sinistra, i narcisi, gli inutili, gli opinionisti con la loro saggezza prêt-à-porter.
«La tragedia dell’irrilevanza è una cifra del tempo. Il giudizio sull’egolatria degli intellettuali passa attraverso lo sguardo di Samuele, il giovane storicoebreo che frequenta gli scrittori. È a lui che gli autori si rivolgonocon una frase che hosentito ripetere spesso: "Ho scritto una cosa che ti riguarda". Un’affermazione tremendamenteridicola. Ecco vorrei nondirla mai delmio Il miglior tempo ».
Qual è il miglior tempo?
«Insiemeal tempoche riconosciamo comenostro ce n’èsempreunaltro checi ègià stato dato eche impedisce alla storia di finire miseramente. Da qualche parte il miglior tempo esiste, nonè tuttocrollo e abbandoni.
Bisognamettersi su quella strada,con la stessa fiducia di Charlie Chaplin e Paulette Goddard nell’ultima scena di Tempimoderni ».
Lei ha lavorato con grandi scrittori. Quali di questi l’hanno accompagnata nella nuova avventura narrativa?
«Mièstata vicina la voce di AmozOz, soprattuttoquando racconta lastoria di sua madre. E ho avvertito il magisterodi AntonioTabucchi, di cui ho conosciuto le fascinose bizze.
Qualche voltami mettevo in guardia: stai attento, questo l’ha già fatto lui».
L’editor riesce a esercitare la stessa sorveglianza critica anche su sé stesso scrittore?
«Nonsempre,ma succede.Ehi stai sbagliando,torna indietro: me lo sono ripetutovarie volte. La cosa più strana è stata nell’ultimo anno lavorare al romanzoecontemporaneamentea unatraduzione di The Beast inthe Jungle di HenryJames, racconto di unadifficoltà mostruosa. Ne è nato un dialogo meraviglioso: io mi trovavo a mandareaquelpaese questo formidabile complicatore d’esistenze cheè ilsignor James e lui guardava con sufficienza almioromanzo: ma seipazzo scrivere queste cose?».