Ha 49 anni, è sposato con Maria Pia e ha due figli, Irene e Filippo. È uno psicologo clinico, ricercatore al San Matteo di Pavia. Per occuparsi delle vite degli altri ha creato la fondazione Soleterre. «Ho depositato alle 13 e 05 del 22 ottobre 2002 l’atto di costituzione al registro delle Onlus.
Poco dopo siamo stati riconosciuti dal ministero degli Esteri come Organizzazione non governativa, con tutti i requisiti per lavorare in ogni ospedale e luogo del mondo».
Mi spieghi la scelta del nome.
«È il contrario di "terre sole", luoghi abbandonati in cui le persone vivono in estrema povertà. Soleterre arriva e cerca di dare loro quello che gli spetta di diritto. Se i diritti fossero riconosciuti. Abbiamo cominciato con l’occuparci di bambini malati di cancro a Kiev, 70 chilometri da Chernobyl. I medici amputavano gambe e braccia con una sega manuale. Chirurgia di guerra, spiegavano. Il primo progetto fu acquistare un kit pediatrico per rendere le amputazioni meno invasive. Da allora abbiamo curato in Ucraina oltre novemila bambini».
Quanto è estesa la vostra presenza all’estero?
«Siamo in ventiquattro Paesi di Africa, Est Europa e Centro America. Lavoriamo nelle oncologie pediatriche di dieci ospedali pubblici, in Italia a Pavia e Taranto, garantendo sostegno psicologico e economico ai bambini, alle famiglie e al personale medico. Abbiamo seguito più di 37 mila bimbi malati di cancro».
Attraverso quali canali vi finanziate?
«Funding Mix, raccolta fondi privata e pubblica, progetti e bandi del governo italiano e dell’Unione Europea. Nel 2020 siamo arrivati a sette milioni di euro».
Qual è il prezzo più alto che paga il volontariato?
«Quello di essere scarsamente valorizzato e ritenuto "scontato" o, peggio, meno qualificato rispetto a altre professioni. Il terzo settore oggi in Italia ha un valore stimato in circa 80 miliardi di euro, pari al 5% del Pil. Un comparto economico e sociale di grande rilevanza che ha dato vita a vere e proprie professioni sino a pochi anni fa inesistenti.
Penso al fund raiser, per esempio».
Lei è cattolico, crede in Dio?
«È una domanda che mi pongo spesso a cui non riesco e non voglio dare una risposta categorica: sì o no. Cerco di praticare, nella mia vita, un pensiero molto semplice che ho ritrovato sia in diverse religioni sia in atei convinti: prendersi cura degli altri. Per me Dio è fondamentalmente la speranza che vi sia sempre qualcosa di meglio rispetto al fenomeno in sé. Penso alla disperazione, quando sembra che nulla sia più possibile. Dio può essere un’ancora capace di una risposta attraverso un uomo, una donna o un bambino che viene in tuo soccorso. Qualcosa di smisurato, come spesso è non misurabile la disperazione. Mi piace pensare, infine, come titolava un bel film, che Dio è donna. Capace di generare vita».
Durante la pandemia avete lavorato accanto ai medici in terapia intensiva. Quanto è stato pesante?
«Ci siamo ancora oggi. Negli ospedali l’emergenza continua. Da marzo a giugno del 2020 i 14 psicologi ingaggiati da Soleterre hanno lavorato al Policlinico San Matteo di Pavia in sei reparti per un totale di 1912 ore, in media 32 al giorno. In terapia intensiva ricordo un medico che mi ha detto di essersi trovato nella difficile situazione di dare precedenza a un paziente e non a un altro, per poche ore. Uno è entrato in terapia intensiva nel pomeriggio, l’altro il mattino successivo. Era normale visto il numero spaventoso di emergenze.
Per fortuna entrambi sono riusciti a riprendersi. Ma quel medico non ha dormito per molte notti».
Quali ferite resteranno su di loro?
«I sintomi del Post Traumatic Stress Desorder, soprattutto pensieri e ricordi ripetuti e involontari, sogni angoscianti o flashback che riportano alla mente l’evento traumatico. Paura, orrore, rabbia, senso di colpa».
La sua più grande emozione?
«La morte di un paziente in terapia intensiva messo in un sacco bianco, chiuso con una lampo e disinfettato. E la morte, a distanza di un’ora, di una coppia di genitori ricoverati con la figlia, anche lei malata. Dare la notizia, assieme al medico, all’altra figlia, è stato angosciante».
Che giudizio dà al comportamento delle istituzioni nella lotta al virus?
«Dal punto di vista medico-sanitario si è fatto il meglio, forse anche di più.
Soprattutto all’interno degli ospedali. La medicina territoriale, invece, in alcune zone del Paese non si è attivata. Dal punto di vista politico i tempi di reazione all’emergenza sono incompatibili con la situazione drammatica in cui ci troviamo. Se va bene i fondi del Piano di ripresa e resilienza arriveranno a due anni dallo scoppio della pandemia. E non è ancora chiaro quali saranno i benefici per le categorie senza protezioni contrattuali. Un tempo incongruo e gestito con sussidi insufficienti».
Abbiamo affrontato davvero una guerra?
«È un paragone inadeguato. Non è giusto, perché l’idea della guerra crea automaticamente un nemico che genera paura. La sfida della pandemia si vince con la consapevolezza che non è necessariamente una lotta ma, al contrario, la visione che tutti dobbiamo adottare comportamenti di solidarietà. Se solo pochi hanno accesso alla medicina e a vaccino non si vincerà».
Le domando di un dramma personale per giungere a un tema collettivo. Lei ha un figlio adottivo che è figlio di sua sorella, vittima di femminicidio.
«Sì, mia sorella Tiziana. Uccisa dal marito a coltellate il 9 luglio 2013».
Decise subito di accogliere quel bimbo nella sua famiglia?
«Che cosa dovrei raccontarle? Mi fa una domanda molto privata che mi costringe a entrare in una vicenda che avrà per sempre, per me, la dimensione di una profonda ferita.
In una notte, quando aveva due anni e mezzo, ha perso tutto quello che puoi perdere a quell’età. Tutto quello che fino a poco prima era il suo mondo di riferimento. La mamma, il papà, la casa, i giochi.
Provi a fermarsi un attimo. Provi a immaginare. Che cosa le viene in mente? Io vedo un bambino con una busta di plastica bianca in mano, contenente tutto quello che gli era rimasto. Che mi guardava negli occhi. Abbiamo iniziato il lungo percorso di adozione con un affidamento, poi sono diventato il suo tutore. L’adozione è stata una silenziosa e costante attività di ricostruzione e costruzione di una vita insieme. Renderla possibile credo sia un impegno nonindifferente per tutta la nostra famiglia. Nello stesso tempo, è stato quanto di più naturale potessi intraprendere, insieme con mia moglie. Un percorso giunto al termine pochi mesi fa. Oggi è un ragazzino in gamba, molto acuto e simpatico con una memoria solida.
Che ama, è amato».
Lei è riuscito a perdonare?
«Perdono è una parola dai molti significati. Se si intende non avere più legami psichici di rancore con chi ha commesso un atto imperdonabile, allora sì. L’assassino è morto qualche anno dopo in carcere e francamente tutta questa storia mi provoca un grande senso di pietà umana nel pensare a due giovani vite finite presto e male.
Perdonare chi uccide la madre di tuo figlio non credo, invece, sia possibile. Il femminicidio non può essere perdonato».