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 2021  settembre 19 Domenica calendario

Bersani parla dell’amicizia con Bossi

Pier Luigi Bersani non esita a definirla «un’amicizia». Nata tra le campagne piacentine, quando lui - giovane consigliere del Pci - andava ad ascoltare i comizi di un Umberto Bossi quarantenne: pantaloni sformati, camicie sgualcite, l’energia di un guitto e il fiuto politico di un leader. Anche se la Lega non era ancora in Parlamento e il Partito comunista era quanto di più lontano si potesse immaginare. «Mi sembrava uno strano personaggio, a metà tra Lenin e Tex Willer», ricorda oggi, a quarant’anni di distanza e con una risata sorniona, il fondatore di Articolo 1. Che da allora Bossi l’ha frequentato a lungo. Da presidente di Regione, da dirigente Ds, e poi ancora da ministro e segretario pd. Ne ha visto da vicino successi e cadute, intuizioni e disastri. Senza mai smettere di tenere un dialogo con un mondo - quello della Lega di allora che era altro dal suo, eppure intercettava un pezzo di Paese.
Perché un consigliere regionale comunista seguiva i comizi di Umberto Bossi?
«Ero un giovane assessore regionale dell’Emilia-Romagna allora, non mi conosceva nessuno e ricordo di essere andato un paio di volte a vedere questo Bossi "underground".
La Lega praticamente non c’era ancora, era nelle scritte sui muri e sulle cabine telefoniche, ma quei comizi mi incuriosivano. Quel concetto di autonomia del Nord che andava predicando in luoghi che conoscevo bene, era qualcosa che sentivo di dover tenere d’occhio».
Cosa la colpì?
«Bossi era nella fase in cui stava passando dall’autonomismo al favoleggiare di federalismo. Mi trovai di fronte questo quarantenne che era una forza della natura. E mi apparve subito avere un fiuto formidabile per il senso comune di questo popolo, di queste zone qui».
Piacenza, dov’è adesso, quella Bassa che è insieme mito e concretezza e che forse da quegli anni non è tanto cambiata. La Lega invece, da allora, ha fatto mille giri.
«È cambiata moltissimo. Allora di Bossi non mi colpì solo l’istinto, quanto un’idea dell’organizzazione del partito e della leadership che stava - appunto - tra Lenin e Tex, incarnata in questa singolare figura umana alla quale sono rimasto affezionato».
Nonostante condividesse poco sia i discorsi di allora che quelli che vennero dopo?
«Sono passati anni, è arrivata Tangentopoli, ho visto l’evoluzione verso posizioni inconciliabili con le nostre: il rapporto con la destra, la visita a Villa Certosa, sebbene in canottiera. Se la ricorda quell’immagine?».
Molto chiaramente. Era un modo per non confondersi con la destra liberale incarnata da Silvio Berlusconi, pur siglando un patto che è durato anni.
«Bossi era abile a marcare le differenze. Una volta mi fregò. Ero presidente di Regione e lo avevo invitato a una festa dell’Unità a Modena. Davanti a un popolo sterminato faceva quello un po’ di sinistra. Gli dissi: "Ma allora, se sei così, perché stai lì col miliardario?".
Lui si voltò gridando alla platea: "Siamo lì anche per voi!". E giù applausi».
Abile, ma con parole d’ordine irricevibili. Gli insulti al Sud, la secessione, gli attacchi anticasta indistinti al nome di "Roma ladrona". E poi la nemesi: il familismo, le inchieste sui soldi sottratti al partito.
«Il baratro della politica, certo. E poi la fase terribile seguita alla malattia.
Sulla secessione, bisogna tener conto dell’aspetto propagandistico della cosa. Bossi si combinava alla destra, ma con la sola ambizione di rappresentare il Nord. La chiave era rimanere antifascista e contemporanementesparareaddosso al Sud o insultare la bandiera. È chiaro che tra noi a quel punto si era creato un abisso politico, ma non fino al punto di rompere un rapporto umano».
Com’è possibile tenere i piani distinti, quando si arriva a scontrarsi in modo così duro?
«Oh ragazzi, a me capita così: se vedo uno che ha fiuto su una realtà, seppur deformandola, mi vien voglia di avere un colloquio, un rapporto. La malattia di Bossi l’ho vissuta come un insulto del destino, un’ingiustizia piombata su un uomo di un’energia strepitosa. E so che anche lui, quando ho avuto il mio problema, ha avuto la stessa sensazione».
Ve lo siete confidati?
«Abbiamo scherzato, qualche volta, sui dispiaceri della politica. I tradimenti. Una volta - quandoveniva giù a Roma piùspesso -mi disse: "O Bersani, ti fa ancora male il coltello nella schiena?". E io: "E a te?". Voglio dirgli auguri di cuore per questi 80 anni».
Quanta distanza c’è tra Bossi e Salvini?
«Bisogna risconoscere che anche Salvini non è nato per caso. Si è fatto Radio Padania tutti i santi giorni a parlare con questo loro popolo. Ha acquisito fiuto, elementi di linguaggio. Ha fatto la fatica di cominciare a girare per quei posti, quando la Lega era al 4 per cento, chiedendo scusa lui per quel che era successo. E dopo questa fase di rianimazione ha cominciato quella di ricostruzione, fatta anche in continuità con i modi di Bossi».
Cercando un nuovo nemico: gli immigrati, non più Roma o il Sud. E sposando la destra.
«Impostando tutt’altra strategia per infilarsi in una fase mondiale in cui prevale quello che alcuni chiamano populismo e che io chiamo solo demagogia. Salvini cerca una dimensione nazionale, non vuole fare la ruota di scorta di altri. E compie scelte che non credo Bossi avrebbe fatto, avvicinandosi a Casapound e all’estrema destra».
Bossi però si trovava benissimo con Berlusconi.
«Andava con Berlusconi, ma non avrebbe accettato questo tipo di collocazione. La strategia di Salvini è differente, nasce dall’idea che ci sia una chance nazionale per una destra di tipo nuovo, non liberale, che vada a prendere l’anima profonda di un popolo da rassicurare creando nuovi nemici, inventando nuovi avversari».