Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  settembre 19 Domenica calendario

La brutalità dei talebani contro i diritti delle donne

Ogni ideologia totalitaria ha bisogno di un nemico contro cui si costruisce, definisce e sviluppa. Il nazifascismo aveva un nemico razziale, il comunismo sovietico un nemico di classe e oggi il jihadismo dei talebani ha un nemico di genere: le donne.Non sono passati neanche venti giorni dal completo controllo dell’Afghanistan da parte dei talebani di Hibatullah Akhundzada ma le notizie che filtrano dal territorio, attraverso testimonianze personali spesso drammatiche, descrivono una situazione dove le donne sono le prime e principali vittime della nuova versione dell’"Emirato Islamico”. Per quattro motivi convergenti.
Primo: vengono discriminate. Perché quando le scuole secondarie ieri hanno riaperto lo hanno fatto “solo per i maschi”. Mentre nelle Università, da Herat a Kabul, le lezioni si svolgono in aule rigidamente divise fra spazi per uomini e per donne. Ciò significa che le circa 3,5 milioni di ragazze afghane che negli ultimi 20 anni hanno ricevuto un’istruzione paritaria ora temono di perderla del tutto o di poterla continuare in una situazione di evidente differenza rispetto ai coetanei maschi. Per i leader talebani tali misure discriminatorie rientrano nell’educazione della donna «come previsto dalla Sharia» (la legge islamica) ma per le loro vittime si tratta di una lampante violazione di uno dei diritti fondamentali di ogni essere umano: lo studio. Vietare o ostacolare la parità di istruzione delle donne solo in quanto tali è una barbarie perché trasforma il razzismo di genere in leggi e regolamenti portatori di discriminazione permanente, condannando le vittime a una condizione di ignoranza, analfabetismo, sottomissione e isolamento nella società a cui appartengono.
Secondo: non possono lavorare. Perché quando si presentano sui luoghi di occupazione precedenti al 31 agosto – impiegate di banca o giornaliste, giudici o insegnanti – si trovano davanti un esponente del nuovo regime che le invita a «tornare a casa», facendo capire che il loro posto è lì e potranno uscire solo se accompagnate da un famigliare maschio. Ovvero, le donne sono state precipitate da una condizione di libertà a una di prigionia dentro le proprie case.
Terzo: le donne nubili o vedove sono braccate. I talebani le cercano casa per casa, con ispezioni spesso notturne, e minacciano i famigliari per poterle trovare e catturare al fine di consegnarle in sposa ai loro mujaheddin. I quartieri di Kabul – raccontano più testimonianze convergenti – sono setacciati da queste “cacce alla donna” innescando una paura collettiva che porta molte di loro a darsi alla fuga, cambiare in continuazione identità, residenza e recapiti. Nel tentativo di scampare a nozze obbligate con jihadisti, stupri e una condizione di schiavitù sessuale.
Quarto: quando le vittime designate della repressione del regime trovano il coraggio di protestare, come avvenuto in alcune giornate a Kabul, vengono picchiate dai talebani in mezzo alle strade. Una giovane di 24 anni racconta che circa cento donne sono state aggredite nella capitale con gas lacrimogeni, spray nocivi, calci di fucile e bastoni di metallo. Molte di loro sono cadute in terra, hanno perso conoscenza. Davanti a passanti uomini che guardavano inermi, in colpevole silenzio.
Ma non è tutto, perché come ogni regime totalitario i talebani perseguono con meticolosità la realizzazione di una società basata sui loro valori aberranti. Da qui la decisione di convertire l’edificio del ministero “Per gli Affari Femminili” – creato dopo il rovesciamento del precedente regime dei talebani nel 2001 per coordinare le politiche di educazione e sviluppo per le donne – nella sede del nuovo “Ministero per la Guida e Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio” ovvero la riedizione della struttura pubblica a cui dal 1996 al 2001 il Mullah Omar aveva assegnato la responsabilità di punire le donne che uscivano di casa senza avere indosso un burqa e senza essere accompagnate da un parente maschio; di proibire alle donne di lavorare e di studiare dopo le elementari; di lapidare le coppie accusate di “adulterio”.
E ancora: proprio come i totalitarismi del Novecento, anche i talebani hanno l’ossessione di essere nel giusto, spingendo le loro stesse vittime a legittimare in pubblico le violazioni subite. A Kabul è successo nell’anfiteatro dell’Università “Shaheed Rabbani” quando circa trecento donne, con indosso dei “niqab” neri che le coprivano totalmente a eccezione degli occhi, hanno sventolato le bandiere bianche dell’Emirato Islamico ascoltando in silenzio i comizi di oratrici che difendevano a spada tratta le misure adottate dal regime. «Noi siamo contro quelle donne che manifestano nelle strade pretendendo di rappresentare ogni donna» ha affermato una delle oratrici, aggiungendo che «il governo uscente abusava delle donne, reclutandole solo per la loro bellezza». E un’altra ha aggiunto: «Chi non porta il velo islamico ci fa del male, noi siamo soddisfatte del comportamento dei mujaheddin ». Basta guardare la foto di questa folla di donne trasformate in fantasmi neri che plaudono alla loro sottomissione e discriminazione per comprendere quale idea hanno i talebani delle donne: persone senza diritti, votate alla sottomissione permanente. Ovvero la negazione lampante della Dichiarazione Universale sui Diritti Umani che venne approvata dalle Nazioni Unite nel 1948 per proteggere gli individui dai crimini del totalitarismo. Quanto sta avvenendo alle donne afghane viola quel testo universale e ci dice che la barbarie è tornata fra noi.