Corriere della Sera, 19 settembre 2021
In morte di Abdelaziz Bouteflika
«È morto Bouteflika!». «Ancora?». È dall’impietoso sarcasmo sui social degli algerini che l’hanno sopportato vent’anni, senza più supportarlo; è dalla forzata indifferenza delle tv di Stato, che mandano in onda cartoon come se niente fosse; è da un pubblico lutto che si limita a tre giorni di bandiere a mezz’asta; è da tutto ciò che si capisce la fine di un’epoca strafinita e la fatica di sopravvivere d’un regime. Abdelaziz Bouteflika era già morto otto anni fa, quando un ictus l’aveva reso un semivegetale. E tutti – tutti tranne lui, forse – lo sapevano. Il fantasma del più longevo presidente d’Algeria se n’è andato venerdì sera a 84 anni, solo ma non dimenticato, circondato da un paio dei suoi otto fratelli: Said, il più giovane, il consigliere fidato, è in galera per corruzione. La sua morte somiglia alla sua vita ed è stata comunicata in poche righe, senza troppi dettagli, come in ogni democratura. L’intramontabile «Boutef» non si sa bene se fosse sposato, probabilmente non aveva figli, di sicuro è stato per una vita nell’appartamento di sua madre Mansouriah. E quand’era ormai vecchio e malato, perfino le Primavere arabe l’hanno abbandonato al suo autunno da patriarca: nessuno s’è mai dato la pena di cacciarlo con la drammaticità rivoluzionaria riservata a un Gheddafi, a un Ben Ali o a un Mubarak. Bastò costringerlo a una lettera di dimissioni in diretta tv e su una sedia a rotelle, nel 2019, indosso una gandura marocchina che coprisse flebo e cateteri.
Deposto, poi isolato, infine sigillato. Eppure ci fu un’epoca in cui Bouteflika contava. Anche fuori dall’Algeria: «Io sono un politico non conformista, sono un rivoluzionario!», urlò nel 1999 prendendo con qualche frode il potere, per non mollarlo più. C’era del vero. Ultimo della generazione che combatté la Battaglia di Algeri contro i francesi, cresciuto fra i padri dell’indipendenza Ben Bella e Boumédiène, a 25 anni Boutef era diventato il più giovane ministro degli Esteri del mondo, primato che tutt’ora resiste, e non ebbe paura di schierarsi col socialismo africano allora imperante, tenendo testa ai De Gaulle e ai Kissinger. «La Mosca del Mediterraneo», come chiamavano la sua Algeri anni 60-70, ospitava i cinesi e i Non Allineati, accoglieva Mandela e Che Guevara, dava cittadinanza alle Black Panther e negoziava col terrorista Carlos. C’era Bouteflika a presiedere l’assemblea Onu, nel ‘74, quando Arafat fu invitato a tenere uno storico discorso col fodero del fucile in mano.
Ci fu poi un Boutef numero 2. Meno rivoluzionario, più allineato. Capace di rinnegare le amicizie russe per legarsi agli americani, nella lotta al terrorismo qaedista. Abile a sfruttare un’economia che è la decima esportatrice mondiale di gas. Caduto in disgrazia e tornato da un lungo esilio politico anni 80 a Dubai, precipitato nei terribili 90 della guerra civile e delle trattative con gli islamisti, tutti amnistiati, il Boutef 2 non fa più prigionieri: conquista finalmente la presidenza che Boumédiènne gli aveva promesso, s’allea ai militari e crea un sistema di potere sclerotizzato e inossidabile, che tutt’ora resiste. Nessuno gli consiglia di non esagerare, quando corregge la Costituzione e si regala quattro mandati di seguito, condannando all’isolamento un’Algeria già impoverita da un’economia statalista e dal crollo del petrolio. Le rivolte di piazza del 2019, alla quinta ricandidatura, lo sorprendono inebetito. Ogni venerdì, milioni di giovani scendono sulla Didouche Morad e chiedono «la cacciata del dinosauro». Impossibile, la repressione. I militari incarcerano un po’ di giornalisti e lo tengono in sella finché possono. Senza imbarazzo, l’ostentano in pubblico come un Brezhnev degli ultimi mesi. L’inverno del patriarca. Oggi lo seppelliranno nel cimitero d’El Alia, quello degli eroi dell’indipendenza. «Io sono l’Algeria tutt’intera», diceva. Ma l’Algeria non è più lui.