il Giornale, 18 settembre 2021
Il reggiseno spiegato dall’ad di Yamamay
La prima boutique Yamamay è stata inaugurata quattro giorni dopo l’11 settembre. Poteva essere un flop pazzesco, ma è stato un successo. Oggi tra Italia ed estero ci sono circa 600 negozi cui bisogna sommare i 500 di Carpisa, marchio di valige che fa sempre capo alla Pianoforte Holding delle famiglie Cimmino e Carlino. «In questi 20 anni è cambiato tutto e il cambiamento più radicale riguarda le donne cui noi siamo legati a doppio filo» dice Gianluigi Cimmino, amministratore delegato dell’azienda di cui è presidente suo cognato, Francesco Pinto. Cominciamo da qui a fare il punto su questo ventennale di vicinanza fisica e morale all’universo femminile.
Perché sua sorella Barbara Cimmino non siede nel cda?
«Perché non vuole. Lei ha la carica più importante perché oltre a occuparsi di ricerca e sviluppo è anche responsabile del bilancio di sostenibilità del Gruppo. Nelle nostre aziende noi uomini siamo in netta minoranza, l’80% dei dipendenti è donna e alle riunioni sul prodotto mi capita di sentirmi il Peter Pan della situazione».
Tra Yamamay e Carpisa la sua preferita?
«La cosa che preferisco fare è cercare nuovi progetti e idee non importa per quale prodotto anche perché tento sempre di abbinare i nostri marchi. Yamamay e Carpisa fanno prodotti diversi per clientele diverse, ma alla fine le tendenze sono sempre le stesse: testimonial e strategie vincenti non cambiano in modo così radicale. Insomma non faccio distinzioni tra una valigia e una mutanda, il mio primo pensiero è il consumatore finale, o meglio le donne che in questi anni hanno avuto i cambiamenti più radicali».
Se li ricorda?
«Siamo nati in un momento di consumismo sfrenato e c’era una minor attenzione ai contenuti sia nel prodotto che nella comunicazione. Il nostro modello di riferimento all’epoca era Victoria Secret, ben presto abbiamo cambiato indirizzo. Molto prima del movimento Metoo noi facevamo le campagne con le frasi sull’amore di Alberoni invece che con le immagini di una bella ragazza poco vestita. La donna per noi non è mai stata un oggetto sessuale ma un soggetto pensante e sensuale».
Viene da qui la vostra attenzione all’ecologia?
«Anche. Perché devo far soffrire una donna mettendole un reggiseno col ferretto? Meno componenti ci sono in un prodotto e minore è il suo impatto ambientale. Certo bisogna fare costruzioni ingegneristiche».
Da dove viene il nome Yamamay?
«Da un libro del 1936 sulla storia dell’industria serica a Como. Era in casa da sempre e mentre cercavamo il nome del nuovo marchio, i miei genitori si son messi a sfogliarlo trovando un capitolo dedicato a un baco da seta che si chiama bombix yamamay e cresce solo in Giappone e non può essere allevato in cattività. Già questo era bello: una cosa preziosa e naturale. In più era un nome palindromo e tutti si chiedevano come si leggeva e da dove veniva: yamamaay o yamamey? Giapponese o cinese? Un marchio deve incuriosire e far parlare, altrimenti non resta in testa».
Momenti sì e momenti no in questi 20 anni?
«Certe cose che sembravano un disastro sono state una fortuna. Penso a quando avevamo scattato le foto di un catalogo sul palcoscenico del San Carlo di Napoli e l’allora sindaco Rosa Russo Jervolino ne proibì la distribuzione la sera della prima de Il Don Giovanni. La polemica finì in prima pagina su tutti i giornali: una botta di visibilità incredibile».
Momenti no?
«Ovviamente la pandemia. Prima nel gruppo c’erano circa 2700 dipendenti, adesso siamo più o meno 2500».
Da bravo napoletano lei parla spesso di fortuna. I casi più fortunati di Yamamay?
«Nel 2011 abbiamo fatto girare lo spot a Sorrentino che solo due anni dopo avrebbe vinto l’Oscar. La testimonial era Isabella Ferrari: bellissima ma non una ragazzina, più sensuale che banalmente sexy. E poi siamo stati il primo brand a far fare una capsule a Jennifer Lopez (2004) a Chiara Ferragni (2012) e a Naomi Campbell (2005)».
Come sarà il futuro nel cassetto della biancheria?
«Ridurre il più possibile le taglie, ovvero vestire con lo stesso prodotto tante fisicità. Riduci i consumi, gli scarti industriali, le rimanenze e, soprattutto, assecondi i cambiamenti del corpo femminile che ingrassa e dimagrisce con estrema facilità. Il nostro nuovo reggiseno Principessa super bra veste 25 taglie. Sta bene a tutte ed è talmente comodo che te lo dimentichi addosso».
L’errore che non rifarebbe più?
«Seguivo le produzioni di persona e tutti i mesi ero in giro tra Vietnam e Cina. Avrei dovuto perdere meno tempo a viaggiare e concentrarmi di più sul digitale».
Produrre in Italia no?
«Volentieri, ci stiamo provando ma è in atto una guerra di cui nessuno parla: l’approvvigionamento delle materie prime sta diventando problematico per tutti i settori industriali, dall’automotive in giù. I cinesi hanno fatto un cartello con le principali compagnie di navigazione, si sono comprati porti e controllano moltissime infrastrutture: dai container ai treni. Insomma far arrivare i gancetti dei reggiseni costa molto più caro di una volta. E non sai quando ti arrivano».