Il Messaggero, 18 settembre 2021
I 170 anni del New York Times
Per i lettori di quotidiani, e per chi comunque intenda seguire le vicende del mondo, oggi è una data storica. Il 18 settembre di 170 anni fa nasceva infatti il New York Times, da allora simbolo della stampa libera, completa e corretta. Non fu, e non è, il giornale più diffuso degli Usa, ma è quello considerato più autorevole, non foss’altro per i 132 premi Pulitzer ottenuti dai suoi reporter. Il suo esordio enunciava un programma di imparziale pragmatismo: «Noi non crediamo che ogni cosa nella Società sia esattamente giusta o esattamente sbagliata. Quel che c’è di buono desideriamo conservarlo e migliorarlo. Quello che c’è di cattivo, eliminarlo o riformarlo». L’obiettivo delle righe che seguono è verificare se questo impegno sia stato mantenuto, non solo dal NYT ma più in generale dai mezzi di comunicazione là dove la libertà è nata, cioè nel mondo anglosassone. E purtroppo è una verifica amara.
L’evoluzione di questi mezzi di comunicazione è stata da principio lenta, poi progressivamente crescente, e infine fulminea. Le notizie che un tempo arrivavano per telegrafo, via cavo o con telescrivente erano sintetiche ed essenziali, consentivano una riflessione ragionata e imponevano una vigilanza accorta, perché una smentita sarebbe stata un’intollerabile offesa al prestigio e alla credibilità del giornale. Ora la situazione si è capovolta. Non solo il potenziale lettore assiste all’evento prima di chi dovrebbe informarlo, ma le fonti cui può attingere sono tali e tante da confondergli le idee, ammesso che potesse averle chiare. L’avvento dei telefonini ha fatto di ognuno un produttore, regista e attore di un film. Per fare un esempio, l’impatto dei due aerei dei terroristi sulle torri gemelle è stato visto e diffuso da dieci angolazione diverse, e da questa semplice variazione di prospettiva taluni hanno sostenuto che quegli attentati fossero fasulli. In Europa, e purtroppo soprattutto da noi, gli interventi dei più autorevoli analisti sono spesso stati contestati, basti pensare al Covid, con grossolane banalità, espresse in battute categoriche e svincolate da ogni controllo critico. Oggi l’informazione corre sempre di più il rischio di una sorta di dissociazione bipolare: da un lato un’asfissiante sovrabbondanza di notizie, vere o inventate, che soffocano e narcotizzano il destinatario. E dall’altro una mutilazione del dibattito argomentato dove il pensiero assente è surrogato da un vocabolario a prestito, sostenuto solo dall’irruenza polemica e persino da una violenta litigiosità.
Nel mondo anglosassone questo indirizzo sembra meno marcato. Anche se il NYT e il Times londinese «non sono più quelli di un volta», ottemperano pur sempre ai due canoni tradizionali, della distinzione tra il fatto e il commento, e della critica mantenuta nel perimetro della buona educazione. Anche i loro talk show, per quanto possiamo seguirli, sembrano più pacati e dialettici dei nostri. E tuttavia questa signorilità contenuta è insidiata da un germe ancor più grave di quello della nostra emotività latina. Il politcally correct che da qualche tempo condiziona gli angloamericani sta producendo quell’ondata di revisionismo corrosivo che rischia di minare le stesse fondamenta della loro gloriosa tradizione.
È noto che nelle più prestigiose università statunitensi, e in quelle ancor più austere di Oxford e di Cambridge, cresce la tendenza a leggere il passato con gli occhi del presente, per cancellare le tracce ritenute incompatibili con l’attuale corrente di pensiero. Persino i mostri sacri della letteratura e della politica, come Shakespeare e Churchill, sono sospettati o vituperati per le stesse ragioni che un tempo li avevano resi celebri. Il Bardo è considerato troppo brutale, maschilista, e antisemita. Alcuni suoi drammi – come Tito Andronico – sono stati ritenuti così sanguinari da vietarne la recita o correggerne il testo, epurandolo dei tratti più cruenti. Quanto a sir Winston, bollato come imperialista, razzista e guerrafondaio, è di questi giorni la notizia che si vuol modificare il nome della sua stessa fondazione. E potremmo continuare. Ebbene, da parte della stampa autorevole e dell’informazione indipendente ci saremmo attesi una reazione indignata per queste ignobili offese, o almeno una valanga di sarcastici commenti davanti a tanta stupidità. Invece, a parte qualche timida osservazione critica, assistiamo a un silenzio sintomo di indifferenza, se non proprio di condivisione.
Forse l’Informazionenon si rende ben conto del pericolo insito in questa remissiva passività. Tutta la nostra civiltà, fondata sul duplice binomio giudaico-cristiano e greco-romano poggia su principi che questa corrente iconoclastica vuole ripudiare, come fanno i talebani con le statue degli dei falsi e bugiardi. L’Antico Testamento, eliminando le guerre, le stragi, gli incesti e le invasioni dovrebbe esser ridotto di due terzi. Il Levitico e il Deuteronomio, con le loro rigide prescrizioni legalistiche, dovrebbero addirittura scomparire. Né sorte migliore attenderebbe i grandi protagonisti dell’Apologetica e della Patristica cristiana. San Giovanni Crisostomo, accanito avversario dei «perfidi giudei, animali rapaci e sanguinari, che servono solo per il macello», dovrebbe essere assimilato a Julius Streicher, opportunamente impiccato a Norimberga. Le pagine più sublimi di Eschilo, Sofocle e Euripide dovrebbero subire robuste sforbiciate, o gli adattamenti arbitrari come i drappi che il Braghetta dipinse sui nudi di Michelangelo. Tutti gli storici, dal conservatore Edward Gibbon al liberal Will Durant, che scrissero senza pregiudizi sulle differenze razziali, dovrebbero finire al rogo, come i capolavori di Heine durante il nazismo. E quando qualche suscettibile emiro vista un museo, già si spostano, o si occultano Madonne e Crocifissi, per non offendere la sensibilità del facoltosissimo ospite. Davanti a questa débacle stampa e televisioni dovrebbero chiudere un giorno per lutto, e invece serbano un verecondo silenzio.
Questa, più ancora che le fake news, è la decadenza fatale della nostra comunicazione. Il New York Times nacque proprio per la difesa di questi valori. Il compito suo e di tutte le eccellenze di qualsiasi settore dovrebbe trascendere i limiti delle rispettive discipline, orientando i cittadini alla ricerca, e soprattutto alla difesa, del bello, del buono e del vero. Questa missione laica è l’unico titolo che attribuisca autorevolezza e prestigio a chi, in un modo o nell’altro, influenza il pensiero altrui, ampliandone gli orizzonti nel vasto perimetro della libertà. Per questo ci addolora ogni acquiescenza supina a questo processo di martellante autoflagellazione che rischia di trasformare la culla della libertà in una bara di oblìo.