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 2021  settembre 18 Sabato calendario

Il flusso carsico che passa dai paradisi fiscali

L’esposizione finanziaria degli Stati Uniti nei confronti della Cina è un fiume carsico transitato finora via paradisi fiscali, un flusso almeno sei volte più grande delle cifre ufficiali e, quindi, potenzialmente in grado di devastare il sistema globale in caso di default a catena di holding cinesi.
Gli Usa, di fatto, funzionano da primo banchiere al mondo in grado di accollarsi rischi altissimi (e alti profitti, ovviamente) per finanziare acquisti in azioni e bond cinesi in settori chiusi agli stranieri. 
Finora l’escamotage è stato il meccanismo delle società cinesi parallele costituite nelle isole Cayman o nelle Virgin Islands. Circuiti ad altissimo rischio, che falsano i veri rapporti di forza tra le due superpotenze e che possono esplodere con violenza in caso di crisi finanziaria globale.
Risorse che circolano nel sistema finanziario ordinario, allocate a loro volta in fondi di investimento e soprattutto fondi pensione a clienti che sono del tutto all’oscuro della componente e della provenienza cinese ma anche degli schemi societari utilizzati per far transitare sottotraccia queste risorse.
Nel 2017 l’esposizione degli Usa era sottostimata di circa 600 miliardi di dollari mentre per la Cina gli Usa detenevano “appena” 154 miliardi di azioni ordinarie cinesi. La posizione reale valeva molto di più, circa 700 miliardi e quando il valore di mercato delle società quotate offshore cinesi nel triennio 2016-2018 guadagnava 1 trilione di dollari, la Cina nei fatti ne deteneva ufficialmente un numero più ridotto.
Nel 2017 questa modalità di investimento in obbligazioni societarie statunitensi nei grandi mercati emergenti attraverso i paradisi fiscali ha spostato dalla Cina l’equivalente di 78 miliardi tra Cayman e British Virgin islands. 
Brasile, India, Russia, Sudafrica e anche l’Europa fanno altrettanto, raccolgono finanziamenti obbligazionari da investitori statunitensi tramite affiliate situate nei paradisi fiscali. Ma per la Cina il discorso è molto più complesso, proprio a causa delle dimensioni del Paese, un gigante che non può permettersi di crollare. 
A tracciare questo flusso sotterraneo è il progetto Global capital allocations dell’Università di Stanford, che si è posto l’obiettivo di gettare un faro sul reale rischio di questa complessa interazione tra Stati Uniti e Cina, soprattutto. Evidenziando i fattori di rischio per gli investitori finali in un contesto che potrebbe volgere al peggio in caso di crisi del sistema cinese.
Guardando alla Cina, infatti, il meccanismo non è solo appannaggio delle Big Tech come Alibaba, Tencent e co. 
Società schermo nelle British Virgin Islands le hanno create Sinopec Group overseas e la indebitatissima Huarong, mentre nelle Cayman si annidano società schermo di holding industriali tradizionali o dei servizi come AAC (componenti elettronici), New oriental Education e TAL education (servizi), ma anche le macchine di Geely, le scarpe made in Shenzhou nonchè il gigante Synopharm.
Infine, WH Group, il più grande produttore di carne, nato sulle ceneri di Shuanghui Group a seguito dell’acquisizione dell’americana Smithfield Foods. 
La Cina e gli Usa, per ragioni diverse, hanno deciso di smantellare questo sistema. Nella speranza che non sia, ormai, troppo tardi.